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Prima che questo report possa iniziare bisogna dire due cose: la prima è che sto terribilmente invecchiando e quindi tendo a rompere i coglioni per ogni cosa che non mi va giù nei concerti capitolini. La seconda è che quelli del Super Santo's Festival dovrebbero come minimo comprare delle casse che non distorcano ulteriormente il suono già di per sé ampliamente sfigurato dai dormienti fonici. Punti di vista? Non credo, ma tutto può essere.
Tolto questo sassolino dalla scarpa, arriviamo a San Lorenzo verso le 22.15 sulle prime note prodotte dai Giardini di Mirò e, meraviglia delle meraviglie, stentiamo a riconoscerli. Cosa è successo alla band che sei anni fa avevamo visto a Cosenza? È successo esattamente quello che non vorresti accadesse mai. La formazione ormai non suona più post rock ma vira decisamente verso un indie-pop con riverberi new wave in cui a volte, e sottolineo a volte, appaiono elementi di ciò che un tempo fu. Quelli vicino a me, e abbastanza addentro al mondo musicale, fanno espressioni che sembrano enigmi. Si guardano intorno, si chiedono se la band sul palco sia la stessa o l'unica cosa rimasta sia il nome. Possiamo comprendere e apprezzare la voglia di non ripetersi, di esplorare altri lidi, ma ciò che ci si presenta stasera non sono i Giardini di Mirò. Se a questo aggiungiamo il continuo crepitìo delle colonne di casse a destra del palco e il cambio dell'uomo alle pelli, che sfoggia un accademico quanto sifilitico drumming, va da sé che il risultato non può essere che deludente. È solo in chiusura che la band tira fuori la sua vera anima, a dire il vero in modo un po' maldestro, con un brano in pieno stile post rock con tanto di lunga introduzione e crescendo seguito dall’esplosione finale degna del loro nome.
Ci vuole un gin lemon per sopportare tutto questo. Pochi minuti dopo Mimì, notevolmente invecchiato e con un cappello in testa, s’avvicina al centro del palco insieme al suo fedele compagno di viaggio a quattro corde. Vi starete chiedendo se le cose sono cambiate anche per loro: no per quanto riguarda l'acustica che è comunque meglio di prima. Sì, e in meglio, dal punto di vista dell'ispirazione. La band è in forma e, anche se viene da un intero tour che si chiude proprio a Roma, Emidio e soci sanno come spingere sulla leva dell'emozionalità. Il repertorio è quello degli ultimi loro live e pesca a piene mani da tutta la loro discografia. Il vecchio cede il posto al nuovo e si parte sulle note di Robert Lowell seguita dall'ammaliante maestosità placida di Coney Island. Una cascata di classici che vanno da Le nostre ore contate, dilaniante nella sua lucida anticipazione del disastro che ci aspetta dietro l'angolo, a Primo Dio forse il più bel pezzo scritto dai Massimo Volume. Potenti e dritti come un destro di un peso massimo preso in pieno volto i “nostri” producono un'ora abbondante di sferzanti note dall’effetto acido, come vetriolo sulla pelle (Litio). Il basso di Emidio è uno schiacciasassi che usa poche note ma affonda gli incisivi direttamente nei muscoli coinvolgendo tendini e arterie creando un piacevole dissesto emozionale in Tra la sabbia dell’oceano. Sul finire arrivano Mi piacerebbe tanto averti qui lenta e soffocante mentre Fausto rialza vorticosamente il tiro avvolgendo di pathos l’esecuzione sempre impeccabile di un pezzo straordinario. Emidio ringrazia tutte le band e nel salutare il pubblico, non sappiamo se per sbaglio o per gioco ma propendiamo più per la seconda, storpia il nome della prima band che diventa Vado al Massimo anziché Vado in Messico.
“Chi l’avrebbe mai detto di ritrovarli qui, luglio 2012, in una serata di sole e caldo in piedi di fronte alle loro note parole e in questo stato di grazia?”
Grazie Massimo Volume, a presto.
Articolo del
21/07/2012 -
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