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Mi sono preso qualche giorno prima di mettere nero su bianco il resoconto del concerto dei Duran Duran. A caldo, sarebbe stato troppo rischioso. L’effetto misto tra suggestione e nostalgia avrebbe, inevitabilmente, inquinato il giusto peso da dare ad un evento che ha poco a che fare con la musica contemporanea. Quale filtro bisogna utilizzare per giudicare oggi un fenomeno che quasi trent’anni fa fu cosi sorprendente e inaspettato? Perché i Duran Duran suscitano ancora interesse e rimangono, loro malgrado, sulla cresta di un’onda che li porterà a breve ad esibirsi ai Giochi Olimpici di Londra come uno dei gruppi simbolo della storia musicale britannica?
La prima risposta è piuttosto banale. Dopo l’esibizione sul palco del Centrale del Foro Italico di Roma, ho avuto la conferma che la strategia del gruppo è proprio quella di mantenersi in vita come un prodotto musicale (e non solo) riconoscibile e ancora amato da tutti coloro che negli anni Ottanta hanno fomentato una vera e propria isteria collettiva per Simon & co. che, nella sua fase più acuta, ha fatto rivivere momenti di beatlesiana memoria. Perché disperdere questo patrimonio? E’ questa la ragion d’essere attuale di un gruppo cosi caratterizzato nel tempo che si ripresenta periodicamente all’attenzione del suo pubblico mescolando i vecchi cavalli di battaglia con le ultime hit degli album prodotti da Astronaut (2004) ad oggi?
Il tour 2012 del gruppo di Birmingham rivede sul palco i 4/5 originari Nick Rhodes, John Taylor, Roger Taylor e Simon LeBon con l’aggiunta alla chitarra di Dominic Brown che, a dire il vero, per il poco spazio lascatogli a disposizione dalle tastiere di Rhodes, fa rimpiangere da subito sia Andy Taylor che Warren Cuccurullo. C’è un legame speciale tra i Duran Duran e il pubblico italiano, dai tempi del loro esordio. Il pubblico che è accorso al concerto di Roma non lascia spazio ad equivoci. Non ci sono più le teenager di trent’anni fa accompagnate dai fidanzati imbronciati. Gli spalti sono popolati da quei quarantenni nostalgici che vogliono risentire i loro cavalli di battaglia delle feste del liceo anni Ottanta. Lo si nota quando, nello scorrere della scaletta, si alternano le grandi hits (Planet Earth, A View To A Kill, The Reflex, Notorious) con i pezzi dell’ultimo periodo (All You Need Is Now, Girl Panic, Safe). Simon Le Bon ha l’arduo compito di far rivivere gli antichi fasti e, allo stesso tempo, di rinverdire l’immagine attuale del brand Duran Duran, incappando spesso in qualche piroetta maldestra o provando a riallacciare quel feeling stile boy band che poco si sposa con l’età anagrafica sia del pubblico che della band. Più azzeccata la dedica speciale di Ordinary World alle popolazioni terremotate dell’Emilia e molto atteso il rush finale, che ha fatto alzare dalle sedie anche i duraniani più pigri, con l’inarrestabile successione dei grandi singoli storici (Wild Boys / Relax (Frankie Goes To Hollywood cover), Save A Prayer, Girls On Film e in chiusura Rio).
La cifra musicale dei Duran Duran nel 2012 è piuttosto chiara: dal punto di vista tecnico sono gli stessi di sempre, con qualche stonatura in meno da parte di Le Bon e le ampie riserve già sottolineate sul nuovo chitarrista (aridatece Cuccurullo!!). Il prodotto Duran Duran è ancora vivo, soprattutto per quell’immensa platea affezionata ad un pop borghese e nostalgico che gli renderà onori tutte le volte che potrà vederli dal vivo. Ma la musica di oggi è un’altra cosa e di questo se ne rendono conto gli stessi componenti del gruppo che si fanno immortalare alla fine in una foto ricordo da incorniciare in una bella polaroid.
Articolo del
31/07/2012 -
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