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Avete mai sentito parlare della “storia fatta con i se”? Del tipo: “se” Napoleone non avesse perso a Waterloo, “se” Hitler non avesse deciso di invadere la Russia…? Ora applichiamola alla scena musicale degli anni Ottanta, e chiediamoci cosa sarebbe successo se nel 1985 gli Echo & The Bunnymen non avessero deciso di prendersi un anno sabbatico e avessero, invece, pubblicato un nuovo album del livello (già eccelso) del precedente Ocean Rain. Quindi immaginiamo che nel luglio di quell’anno, invece di opporre uno sdegnato (quanto incauto) diniego alla richiesta di Bob Geldof, avessero suonato al megaconcerto Live Aid, che divenne l’evento musicale più visto della Storia e decretò la fama imperitura di personaggi che ci siamo portati appresso per anni quali gli U2, i Simple Minds, Bryan Adams, George Michael, Queen ecc. ecc. Nulla di tutto ciò, come sappiamo, ebbe luogo, e anzi, dopo la difficoltosa uscita del quinto (cosiddetto “grigio”) LP eponimo nel 1987, la band di Liverpool si sciolse prematuramente ed entrò a far parte del novero delle tante formazioni dimenticate che nei primi anni Ottanta ebbero un breve, fugace momento di splendore. Col risultato che oggi, se chiedi a un ragazzino se conosce Echo & The Bunnymen, non ti sa rispondere - mentre magari ti può recitare strofa per strofa Sunday Bloody Sunday. Eppure l’importanza del gruppo di Ian McCulloch, Will Sergeant, Les Pattinson e Pete Freitas è stata immensa. I quattro LP che pubblicarono tra l’80 e l’84 sono dei capisaldi della new wave e del pop moderno: senza di loro è verosimile che gli U2 non sarebbero mai esistiti (o avrebbero avuto un suono totalmente diverso), tutta la scena shoegaze sarebbe sbocciata con difficoltà, e centinaia di formazioni odierne di successo sono loro debitrici: Interpol, The National e i recenti Fresh & Onlys sono le prime che mi vengono in mente. E anche quando sono tornati sulle scene nel ’97 con uno stile diverso, più song-based, Echo & The Bunnymen non hanno deluso grazie a una trilogia di album quali Evergreen, What Are You Going To Do With Your Life? e Flowers spettacolare quanto inatteso. Restano però – ingiustamente – una band di “culto”, che oggi dà concerti in locali medio-piccoli mentre loro colleghi di minor talento si esibiscono negli stadi o nelle arene.
Arriverà, certamente, il momento in cui verranno rivalutati; e tuttavia, in attesa che ciò avvenga, è davvero un piacere gustarseli nel tepore di un quasi-pieno Circolo degli Artisti, e ritrovarsi, senza neanche sudare tanto, a un passo dal cantante Ian McCulloch e dal chitarrista Will Sergeant (gli unici membri originari rimasti, dopo la prematura morte del batterista Pete De Freitas in un incidente motociclistico nell’89 e la defezione del bassista Les Pattinson nel ’99). Da Roma i Bunnymen mancavano da tantissimi anni e l’ultima volta, il 16 maggio 1984 al Tenda Seven Up (nello spazio dove oggi sorge l’Auditorium) non era andata affatto bene: si era a metà concerto quando i punk in prima fila, pensando di essere ancora nel ’77, iniziarono a sputare per mostrare, presumibilmente, il loro apprezzamento. Solo che uno di questi sputi raggiunse McCulloch in un occhio: il cantante, dapprima stupefatto - erano comportamenti che in Inghilterra non si vedevano più da anni - quindi schifato e infine infuriato, sbattè per terra la chitarra mettendo fine alla serata, e non volle più risalire sul palco nonostante le richieste imploranti della platea.
Erano, quelli, i Bunnymen mitologici di Ocean Rain. Questi di oggi sono quelli del cosiddetto Mk.II. Hanno rilasciato tre anni fa un album un po’ di routine come The Fountain, ma possiedono ugualmente un repertorio incredibile, che oggi è ancora più vasto di quello dell’84. Ian McCulloch resta, a trent’anni di distanza, un personaggio carismatico, dotato di un aplomb che ricorda sempre più quello di Lou Reed (suo storico faro ispiratore insieme a Jim Morrison e Bowie) con gli occhialoni scuri perennemente inforcati e una mise a metà tra lo snob e lo sciatto consistente in un simil-parka e un paio di scarpe da ginnastica. Capelli neri corvini, forse tinti. Viceversa, Will Sergeant è invecchiato meno bene allargandosi a dismisura. Ma i suoi riff di chitarra (alla The Edge, pensa qualcuno: mentre in realtà sono quelli di The Edge a essere alla Sergeant) sono sempre ficcanti e puntuali. Ad accompagnarli, ci sono Stephen Brannan al basso, Gordy Goudie alla seconda chitarra, Paul Fleming alle tastiere e Nick Kilroe alla batteria. L’avvio del concerto è affidato a quello che fu anche l’inizio della loro saga: il brano d’apertura dell’esordio Crocodiles, Going Up a cui fa seguito il grande classico di quel disco, Rescue, un brano che da solo compendia la legacy di Echo & The Bunnymen per la sua mirabile fusione di psichedelia alla Doors con il post-punk dei Joy Division. McCulloch parla poco ma (stavolta) appare di buon umore. E poi, soprattutto, la sua voce è più efficace che mai: anni di sigarette a raffica (durante il concerto ne fumerà quattro-cinque di fila) le hanno conferito maggior autorità e spessore, e con il ragazzino di Crocodiles non c’è paragone: meglio oggi. La successiva Stormy Weather (da Siberia del 2005) è un onesto melodico pezzo pop, uno dei tanti di buon livello che i Bunnymen hanno prodotto negli ultimi anni; ma poi si ritorna ancora al 1980, con Do It Clean e con una straordinaria Villiers Terrace che viene fusa con Roadhouse Blues dei Doors per il primo dei due omaggi della serata. Da qui in poi è una setlist da mozzare il fiato: fatta eccezione per Over The Wall e The Back Of Love (due pesi massimi), Ian, Will & Co. suonano uno appresso all’altro tutti i brani storici del repertorio: Seven Seas, Bring On The Dancing Horses, l’ipnotica Zimbo cantata in coro da una platea che va dai 60 ai 15 anni di età, All That Jazz, Never Stop, The Killing Moon... tutte assolutamente impeccabili. Nel mezzo, due proposte più recenti come Rust del ’99 e The Fountain del 2009 con le quali McCulloch può dare sfogo ai toni bassi della sua voce da crooner. L’ultimo pezzo prima del riposo è una vertiginosa The Cutter, saliscendi d’emozioni che da sola riassume il suono di un’epoca. Solo pochi minuti di pausa, prima del ritorno in pista per i dovuti bis. Il primo pezzo è il più bello (e celebre) di tutto il Mk.II: la ballata Nothing Lasts Forever tratta dal disco del “ritorno” Evergreen (1997): senza dubbio tra le migliori canzoni degli anni Novanta. Viene eseguita in medley con l’inno decadente Walk On The Wild Side di Lou Reed, tanto per rendere esplicitamente tributo a uno dei grandi mentori (la fanno talvolta anche Bono & C., che però, chissà perché, non hanno mai preso in considerazione l’idea di suonare una cover dei Bunnymen). Finale maestoso con Lips Like Sugar, l’ultimo grande capolavoro del Mk.I datato 1987, poi tutti a prendere aria e birra nel giardino del Circolo ormai stracolmo di gente giunta dalle altre venues del Festival Ultrasuoni.
In quest’autunno che si annuncia povero di grandi concerti, Echo & The Bunnymen ci hanno regalato una bella serata di grande musica e ci hanno dato modo di riassaporare quella che fu la loro Leggenda. Bisognava esserci, anche perché in futuro sarà problematico rivederli in giro: Ian McCulloch infatti, dopo la recente ristampa dei suoi LP solisti (Candleland dell’89, Mysterioso del ’92 e Slideling del 2003, tutti in versione doppio CD editi dalla Edsel) nei prossimi mesi darà concerti per suo conto in versione acustica, accompagnato dal fido Ian Broudie (sua vecchia conoscenza di Liverpool, leader dei Lightning Seeds). E’ prevista in Italia unicamente una data ad Azzano Decimo (Pordenone) il 18 gennaio, un appuntamento - neanche a dirlo – straconsigliato per chi si trovasse in zona.
SETLIST:
Going Up Rescue Stormy Weather Do It Clean Villiers Terrace / Roadhouse Blues Seven Seas Bring On The Dancing Horses Rust All My Colours (Zimbo) The Fountain Never Stop All That Jazz The Killing Moon The Cutter
Encore: Nothing Lasts Forever / Walk On The Wild Side Lips Like Sugar
(La foto e il video di Echo al Circolo degli Artisti sono di Giancarlo De Chirico)
Articolo del
20/10/2012 -
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