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C’è il pubblico delle grandi occasioni all’interno della Sala Sinopoli pronto ad attendere e ad acclamare a gran voce Herbie Hancock, 72 anni ben portati, pianista leggendario nel panorama del jazz contemporaneo, che arriva a Roma con il suo nuovo tour intitolato Plugged In / A Night Of Solo Explorations.
Battezzato da Miles Davis come l’unico degno successore di Thelonius Monk, Herbie Hancock suona il pianoforte dall’età di 11 anni, quando era considerato un bambino prodigio e con il tempo ha sviluppato un suo personalissimo stile, che tiene comunque conto delle influenze musicali di mostri sacri del jazz come Oscar Peterson e Bill Evans. Per la prima volta si esibisce in concerto da solo, senza un gruppo di musicisti veri e propri: “Ma come faccio a sentirmi solo?“ esordisce sorridendo Herbie "circondato come sono da tutte queste splendide cose?” Si riferisce naturalmente alla sua strumentazione, sia elettronica che digitale, che lo supporta sul palco e che prevede il suo Fazioli Gran Piano, tre sintetizzatori, fra i quali il suo fidato Korg Kronos, e due computer.
La serata prevede un concerto essenzialmente strumentale che inizia con una lunga esecuzione al pianoforte, densa di passaggi articolati e complessi che Mr. Hancock affronta con grande disinvoltura e naturale perizia, mostrando come la sua persona e la sua musica siano in realtà una cosa sola. Melodie sopraffine e sonorità profonde che fanno viaggiare la mente, ma che poi vengono parzialmente sconvolte dagli interventi della strumentazione elettronica in dotazione ad Herbie, che quasi gioca con i suoi electronic devices, si diverte ad ascoltare la sua voce filtrata e a mettere in funzione i suoi macchinari infernali. Mister Hancock è sempre stato affascinato in passato dalla sperimentazione e dal ricorso alla tecnologia - prima in chiave elettrica e adesso coniugata con l’elettronica - e la chiave funky-soul del suo jazz ne guadagna sicuramente in ritmo e in potenza. Composizioni come Watermelon Man, Cantaloupe Island e l’immancabile Speak Like A Child mandano in visibilio il pubblico presente in sala, ma risentono forse di un tessuto sonoro un po’ troppo sintetico ed altisonante. Accordi sincopati, batteria elettronica e improvvisi cambi di ritmo sono alla base della seconda parte del concerto, dove Hancock mescola l’improvvisazione tipica del jazz e il ricorso ad un’elettronica spinta e tambureggiante. Brani come Actual Proof e Chamaleon, eseguita nel finale, quando il pubblico era già caldo e vociante, nonché pronto ad accompagnare con un convincente battito delle mani i suoi diversi passaggi ritmici, hanno denotato il talento e la professionalità di Herbie Hancock, che però strizza l’occhio in maniera forse eccessiva a soluzioni musicali di grande effetto e molto scenografiche. Mi riferisco in particolare a quando impugna la sua “keytar”, una sorta di tastiera elettrica portatile che impugna come fosse una chitarra e dalla quale riesce a far scaturire degli assolo mirabili che scuotono gli spettatori, ma che non trasferiscono emozioni. Un po’ come i fuochi di artificio in riva al mare in estate, di notte, durante la festa del Santo Patrono.
In conclusione un concerto che ha presentato luci ed ombre, con un Herbie Hancock troppo innamorato delle infinite possibilità dei suoi laptop, che utilizza le campionature con un furore eccessivo, neanche fosse un esponente del movimento “hip hop”. Gli orizzonti della musica jazz sono molto ampi, questo è vero, ma a volte sarebbe meglio stabilirne i confini.
Articolo del
24/10/2012 -
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