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Clima tiepido e meteo tipicamente inglese nella città dell’amore e dell’arte. Fattori, sentimenti ed aspetti che convergono in una direzione univoca e che stasera conduce al Palais Omnisports di Parigi, ove i Muse torneranno per far tremare le fondamenta del palazzetto, sito nel quartiere di Bercy, nella zona sud-est della capitale francese. Un amore istantaneo quello con il pubblico transalpino, nato fin dai primi tempi in cui la band di Teignmouth suonava nei locali più piccoli e già era seguitissima da un numero di estimatori secondo solo a quello inglese. Lo sanno i francesi, che hanno mandato sold out in pochissimo tempo i tagliandi a disposizione e lo sanno i Muse, che hanno scelto di iniziare il tour del nuovo album The 2nd Law proprio dalla Francia.
Le ole ed il battito di mani e piedi del pubblico riempiono l’atmosfera di ansia da attesa, fino ad un punto di saturazione, quello in cui le luci calano bruscamente e si possono udire solo urla provenire da ogni dove. Il primo boato di benvenuto sul palco lo riceve il membro aggiunto dei Muse, Morgan Nichols, l’ormai imprescindibile polistrumentista che si unisce al trio del Devon per le esibizioni live. Nichols si posiziona alla destra della batteria di Dominic Howard, che prende il palco poco dopo, insieme agli amici e colleghi Matthew Bellamy e Christopher Wolstenholme, sulle note d’archi che aprono Unsustainable. Giusto il momento per serrarsi di fronte alla batteria ed al segnale di Bellamy si scatena l’inferno, i tre squarciano le suadenti note sinfoniche iniziali con la plurieffettata e distortissima sequenza dubstep, eseguita tale e quale alla versione contenuta nel disco, eccezion fatta (davvero un peccato) per il vocalizzo nella parte centrale del brano, che ne rappresentava decisamente il fiore all’occhiello. Rotti gli indugi lo show prosegue sulle ruvide note del riff di Supremacy, quindi con il suo incedere solenne e la conclusione roboante, che spalanca la strada alla prima “non-nuova” della setlist, Map Of The Problematique, sempre coinvolgente con i suoi rimandi alla Depeche Mode, conclusa con il riff della b-side Who Knows Who, quest’ultima caratterizzata invece dall’assonanza con Heartbreaker dei Led Zeppelin. Segue un’altra estratta dal quarto album, Black Holes & Revelations, la sinuosa Supermassive Blackhole. Il primo tuffo con il più recente passato invece avviene con la title-track del penultimo lavoro della band, Resistance, cui segue la nuova e divertente Panic Station, scandita da ritmi prettamente funky.
La band si muove su un palco come sempre caratterizzato da una scenografia ben lontana da qual si voglia forma di sobrietà, composta dalle ormai canoniche “ali” alle due estremità, collegate da una passerella perimetrale rialzata fatta di schermi video che passa dietro la batteria, ma soprattutto da un’imponente piramide (anch’essa fatta di schermi che proiettano immagini e luci) che muta la sua forma a seconda del pezzo che viene eseguito. Per Animals infatti ecco che le immagini rimandano ad una tipica sede della Borsa, con cifre di valori e valute rosse e verdi in rapida successione, il teatro delle contemporanee disgrazie economiche mondiali sulle quali speculano proprio gli “animali” che Matthew Bellamy denuncia nel testo. Come facilmente immaginabile in sede di ascolto della versione in studio, questo pezzo eseguito live guadagna molti punti in più, specialmente a partire dal cambio di ritmo che introduce in primis l’assolo di chitarra, quindi i successivi riff di chiusura. L’ultimo baluardo della sobrietà stilistica di questa band, ovvero il bassista Chris Wolstenholme, ha anch’egli ceduto alla tentazione dei vezzi e degli orpelli tecnologici che già da tempo ormai contraddistinguono la strumentazione di Matthew Bellamy, presentandosi con un basso con la tastiera fatta di led multicolore. Dopo un’insipida jam ecco l’altrettanto banale Explorers, che all’interno di The 2nd Law sa tanto di riempitivo e che anche live risulta altrettanto anonima. Va bene riprendere fiato dopo una partenza frenetica, ma c’è modo e modo, come dimostrato dal brano successivo, con Matt Bellamy sempre al piano che però ora rispolvera dall’album di esordio Showbiz una piacevolissima Falling Down. Come avveniva già nello scorso tour con Cave (sempre estratta dal primo album ed eseguita in versione al pianoforte) ormai questa ha tutta l’aria di essere una formula prestabilita, quella di ripescare una chicca dal passato, per accontentare i nostalgici ed i fan di primissimo pelo, che negli ultimi tempi rimproverano spesso i loro idoli di avere un po’ rinnegato le loro “origini”. Sembra incredibile infatti udire di lì a poco le note e le parole di Host, b-side che risale alla fine degli anni 90, i tempi delle prime demo dell’allora sconosciuta band proveniente dall’area sud-occidentale dell’Inghilterra. Host si rivela un beffardo “tease & denial”, perché viene eseguita soltanto a metà, per lasciare invece spazio proprio alla canzone che ha spalancato le porte del successo commerciale dei Muse, Time Is Running Out.
La band sembra essere disinvolta e spontanea, seppur senza eccessi o colpi di testa, ma neppure fredda ed istituzionale. Si percepisce la voglia di ritornare a suonare per il piacere di farlo, tipica delle date iniziali, prima che subentrino i meccanismi routinari e logoranti che un lungo tour porta inevitabilmente con sé. C'è addirittura anche un momento di quasi imbarazzo da parte di Chris, alle prese con uno dei brani da lui scritti e nel quale veste anche i panni inusuali del cantante. Come succede tra amici è bello vedere Dominic Howard alzarsi e sporgersi verso di lui e sussurrargli qualcosa all'orecchio, prima che questo decida di dirigersi verso il microfono della pedana centrale del palco, come se fosse un trampolino da cui lanciarsi. Chris Wolstenholme si gira nuovamente ed incontra lo sguardo ed i sorrisi incoraggianti di Matthew e Dominic, pronti a partire con la tiratissima Liquid State, con Bellamy che si gode la libertà dal cantare dilettandosi nell’attingere dalla "rumoristica" che la sua chitarra può fornirgli. Chris lascia il centro del palco per imbracciare il suo avanguardistico Status Kitara Doubleneck Bass, strumento con doppio manico che unisce un basso a quattro corde con una kitara. E’ quindi il momento del nuovo singolo Madness, quello in cui si capisce quanto i Muse abbiano decisamente strizzato l'occhio al pop, non tanto per il genere del pezzo in questione, quanto per l'attitudine generale. La ciligina sulla torta sono gli occhiali di Matthew Bellamy, con degli schermi sulle lenti che trasmettono le parole del testo...! Il brano successivo è la struggente e trascinante Follow Me, nella quale Bellamy si propone in un’insolita veste che lo vede impegnato solamente come cantante. Matt sente in particolar modo questo pezzo, il primo dedicato a suo figlio Bingham ed il coinvolgimento emotivo del frontman inglese è evidentissimo. E’ poi la volta di Undisclosed Desires, ma Matthew Bellamy sceglie ancora di rimanere soltanto con il suo Shure wireless tra le mani, il nuovo giocattolo con il quale gironzola per il palco, scende a stringere mani ed a prendersi l’adorazione dei fan nelle prime file. Già finita dunque l’era dell’innovativa keytar creata da Hugh Manson proprio per l’esecuzione del suddetto brano. Arriva il momento del grande classico, l’eterna Plug In Baby con Bellamy che finalmente torna a suonare la chitarra (Mirror Manson) ed a saltare con essa.
Quando nel pomeriggio avevo incontrato Dominic Howard e gli avevo chiesto se la sera avrebbero suonato qualche pezzo particolare da Origin Of Symmetry la risposta era stato un frettoloso “Non mi ricordo bene...”; certo, mai mi sarei aspettato che Plug In Baby sarebbe rimasta l’unica superstite dell’indiscusso capolavoro del trio. Sì, perché tra le varianti finora viste nell’alternarsi delle setlist ce n’è una che prevede il sorteggio in diretta di un brano per mezzo di una roulette come quelle dei casinò, rosso per New Born, nero per Stockholm Syndrome. La roulette compare sugli schermi perimetrali che avvolgono lo stage, Matthew Bellamy segue la biglia bianca finchè questa non si ferma sul pezzo che verrà eseguito, che in questo caso è Stockholm Syndrome, dall’album datato 2003 Absolution. La fine della prima parte del concerto viene caratterizzata dal calare della piramide sulla band, come fosse un sipario, che sparisce dalla visuale del pubblico.
Durante la pausa viene passata la versione studio dell’ipnotico brano strumentale Isolated System, a mo' di musica d’attesa. La calma della pausa viene squarciata dal dirompente giro di basso che apre Uprising. La band ricompare sul palco, in realtà tutti tranne Dom Howard, che è ancora dentro la piramide di schermi, sui quali sono proiettate delle esilaranti sequenze di immagini che lo ritraggono con le fattezze di un ninja, con tanto di tutina alla Bruce Lee, impegnato ad eseguire il pezzo ed allo stesso tempo a neutralizzare gli attacchi di altri ninja cattivi...! Si evince da scelte stilistiche come questa che i Muse ormai abbiano preso atto del loro status di band di prima grandezza nel panorama musicale mondiale, quindi come questo ingigantimento di fama abbia portato gli stessi interpreti a ritagliarsi le proprie singolari dimensioni di protagonismo. La prima coppia di encore si chiude con la cavalcata di ispirazione morriconiana Knights Of Cydonia, introdotta proprio dall’ormai abituale omaggio, proprio al grande maestro romano, Man With A Harmonica, nonostante in estate il leggendario compositore avesse criticato la scelta del comitato olimpico di incaricare proprio i Muse dell’onere ed onore di comporre l’inno olimpico, che sarebbe stato Survival. Inno olimpico che è anche il pezzo di chiusura del concerto, preceduto da Starlight, in un tripudio di riff ed ondate di fumo...
Tanto fumo e poco arrosto tuttavia in questa performance, nella quale scarseggiano le emozioni davvero indimenticabili, salvo rari momenti di intensità come, su tutti, l’esecuzione di Follow Me. La resa dei brani è stata tecnicamente impeccabile, ma ordinaria allo stesso tempo, l’entusiasmo da parte della band c’è, ma non va mai sopra le righe, colpa forse della prevedibilità della scaletta, sempre e comunque alquanto avida di vere “chicche” ed infarcita delle solite note hit. I Muse ormai il loro spazio nella storia recente se lo sono ritagliato, vuoi anche per l’assenza di concorrenti all’altezza durante la passata decade, tuttavia per accedere davvero al cospetto dei grandi, anziché ispirarsi agli U2, Matthew Bellamy potrebbe virare verso un più passionale approccio stile Bruce Springsteen, magari con annessa esecuzione di pezzi a richiesta dal pubblico. Magari invece potrebbero semplicemente tornare ad essere loro stessi, capaci di rendersi protagonisti di performance incendiarie come quelle di un tempo, quando il cuore ce lo mettevano sempre e non solo ad intermittenza.
Articolo del
25/10/2012 -
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