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Fabio Zuffanti, genovese, classe 1968, suona il basso in vari progetti progressive, genere rock nato tra la fine degli anni 60 e l’inizio dei 70 da gruppi come King Crimson, Genesis, Yes, Emerson, Lake & Palmer, ed è anche produttore discografico. Recentemente è diventato anche scrittore, pubblicando per Vololibero O casta musica, pamphlet al vetriolo sullo stato della musica in Italia. Extra! ha deciso di approfondire la questione.
Allora, Fabio, hai fatto quello che tutti pensavano ma nessuno diceva per bene, per esteso: hai scritto un libro contro quella che definisci “la casta musicale”.
Qualche tempo fa ho avuto l'idea di buttare su carta quelli che erano i miei pensieri nei confronti della visione della musica che si ha nel nostro Paese. Pensieri che sono infine confluiti in questo libro ove analizzo e critico diverse cose: chi pensa che fare il musicista non sia un lavoro come altri, chi pensa che se non ascolti i cantanti più famosi o le radio che mandano “solo grandi successi” sei uno sfigato, chi pensa che la musica debba essere solo allegra e scacciapensieri, le cover band, certo indie italiano, i talent show e le scuole di musica che insegnano tutti a cantare e a esprimersi allo stesso modo come burattini. Questo e molto altro. Il fatto che io faccia musica di professione c'entra ma anche no. Nel senso che le cose che mi toccano non sono solo quelle che riguardano il mio mestiere ma anche, e soprattutto, quelle che riguardano la mia sensibilità come ascoltatore. Prima che musicista sono infatti da molto tempo un accanito “divoratore” di musica, acquirente di cd e vinili, appassionato lettore di riviste musicali, di tutto quanto possa allargare i miei orizzonti e le mie emozioni nei confronti dell'ascolto della musica. In poche parole sono quello che gergalmente viene definito un nerd. Sono però in contatto, tramite il mio lavoro, i social networks o semplicemente le amicizie, con un gran numero di persone che nerd non sono e che ascoltano musica solo per il gusto di ascoltarla senza porsi grossi problemi o fare smisurate ricerche. In poche parole ascoltano quello che “passa il convento”. Nonostante ciò spesso mi è stata posta da persone del genere questa domanda: “Ma tu che operi nel campo della musica sai come mai in radio e in tv passano solo sempre gli stessi cantanti e soprattutto sempre lo stesso genere?” (il riferimento è al pop da classifica) Ora, io potrei dire loro: “Guardate che se andate su radio Capital, sulle webradio, su alcuni programmi di radio Rai, ecc... trovate anche musica diversa”. Ma in fondo a questa gente che gli frega di andarsi a fare tali ricerche? Loro accendono la radio, trovano le stazioni più conosciute e lì la musica che passa è quella, senza molti spaziamenti di genere. Ed è sempre la stessa. Poi magari possiamo fare qualche piccolo distinguo ma in generale la situazione è questa. Che rispondere quindi a queste persone? Se ne deduce quindi che una gran fetta di ascoltatori (in generale adulti, dai 25 ai 50 anni in media, ma conosco anche molti giovanissimi) è costretta a subire quello che i newtork passano. E i network passano solo pop e solo pop di una cerchia ristretta di cantanti che sono sempre quelli da almeno 30 anni, chi più chi meno. Unica alternativa: giovani usciti da qualche talent show. Ma la musica è sempre la solita, pop all'italiana, melodico, voci che urlano, una sorta di finto soul che vorrebbe imitare le star americane e testi strappalacrime che parlano d'amore e derivati. C'è qualcosa di male in tutto questo? No, assolutamente: una buona metà degli abitanti del nostro Paese, in particolare giovanissimi, gradisce tutto questo e spera che le cose rimangano tali. C'è però un numero altrettanto enorme di persone che vorrebbe invece cose diverse. Perché non darle loro senza doverli obbligare ad andarsele a cercare? In fondo chi ascolta pop mica se lo deve andare a cercare, è già tutto lì! E allora perché questo non può succedere ANCHE con altri generi? Secondo me siamo a un punto in cui non è più concepibile che un genere sia sotto la luce dei riflettori sempre e comunque mentre tutti gli altri debbano vivere di nicchie. Non è giusto, non è democratico. Qualche settimana fa durante un convegno al MEI un esimio giornalista/dj mi faceva notare in maniera alquanto convinta che “la democrazia in musica non può e non deve esistere, che se hai talento esci altrimenti stattene pure a casa e che se devi provarci meglio farlo entro i 20 anni di età. Se insisti ancora a 40 sei un povero sfigato ed è meglio che lasci perdere in fretta.” In generale sono assolutamente d'accordo sul fatto che debba uscire chi ha talento, ci mancherebbe. Ma se tu non hai un talento POP? Se, tanto per fare un esempio, hai un talento nel campo del post-rock come fai in Italia a uscire? Potranno mai passare in radio un tuo pezzo se dura più di 3 minuti e non ha il ritornello col “graffio” dopo 30 secondi? In Italia un gruppo di fama internazionale come i Sigur Ros come avrebbe mai potuto avere il successo che ha? Fossero nati in Italia gruppi come i Pink Floyd come avrebbero fatto? Gli avremo dovuto dire “accontentati dei programmi in orario notturno perché fai musica particolare ma i migliori orari di programmazione lasciamoli a Emma perché piace di più al pubblico?” Ma come si fa a essere così convinti di sapere perfettamente cosa piace al pubblico? Se un artista fa buona musica e non fa necessariamente pop perché deve trovarsi una strada irta di complicazioni per arrivare a farsi conoscere? Chi ha deciso che il pop sta lassù e tutto il resto deve affogare in un unico magma indistinto? Eppure sembra ci sia una sorta di blocco e che si preferisca pensare che certa musica debba obbligatoriamente stare nella nicchia mentre altra può arrivare alle orecchie di chiunque. Una cosa che per quanti sforzi io faccia non riesco a capire. Poi ok, la nicchia può anche essere bella e in fondo a volte è meglio ritrovarsi tra un piccolo gruppo di persone che la pensa come te piuttosto che affrontare il mondo brutto e cattivo ma, cavolo, a ogni musicista di talento, qualunque genere egli faccia, dovrebbe essere concessa la possibilità di farsi conoscere presso più persone possibile. Poi il pubblico - e solo quello - potrà decretare se la musica è buona o no. Il fatto che invece ci sia una censura preventiva sui generi mi sembra una cosa oramai superata. Rendiamoci conto, c'è una massa enorme di pubblico che attende musica diversa. Così come attendono politiche diverse e una società più equa. Perché invece l'arte musicale deve sempre essere trattata come una cosa che riguarda l'intrattenimento becero? La musica può far pensare, evolvere, cambiare... ma se la musica che passa è sempre solo di un genere non se ne uscirà mai. Questo e altro è quello che ho cercato di riportare nel mio libro, in vari capitoli ognuno dedicato a quelli che sono a mio avviso i malcostumi nella percezione che si ha della musica in Italia. Non contento del mio pensiero nella seconda parte ho cercato di porre le questioni a musicisti, giornalisti e addetti ai lavori che potessero comunicarmi il loro punto di vista. Qualcuno è stato d'accordo con me, altri mi hanno preso più o meno per matto ma c'è stata comunque la volontà di sviscerare il problema, cercare di capirlo. Nessuno si è tirato indietro dicendomi semplicemente “È così e nulla potrà mai cambiare!” come sento spesso dire invece ad altri... Concludo affrontando l'argomento più spinoso e che apparentemente sembra interessare maggiormente chi si appresta alla lettura del mio libro: quanto a me questi problemi toccano? Quanto sono invidioso del successo altrui? Quanto mi sto scagliando contro tutto ciò per tornaconto personale? Faccio presente il fatto che spesso mentre uno indica la luna in molti sono lì a guardare il dito, facendoti anche notare se hai le unghia sporche, ma a parte ciò è chiaro che io mi sento parte in causa. Faccio il musicista da quasi 20 anni, credo di avere dimostrato di avere talento in questo campo, i miei dischi hanno un loro mercato (di nicchia) e mi permettono di sopravvivere. Ma più di tanto in su non si va. Sì, sei bravo, ma a un certo punto c'è un muro che non puoi superare. E, scusatemi tanto, a me questo discorso di bearsi delle nicchia non piace. In ogni sacrosanto lavoro c'è la possibilità di fare carriera, se suono un genere che non è “popolare” invece no. Ma allora facciamo in modo che altri generi diventino popolari, così come era una volta. L'ergonomia del pop ha rotto le scatole a moltissimi; diamo più spazio a livello di network radiofonici e programmi tv, anche all'approfondimento di altre musiche, alla storia del rock e molto altro, soprattutto a facce nuove anche in generi vecchi. Nel mio genere ci sono stati i Genesis, i King Crimson e molti altri, ma ora c'è tutta una nuova generazione di musicisti che fa progressive rock. Diciamolo, diamo spazio alla cosa, facciamoli conoscere, mandiamoli in radio e vediamo se la gente li recepisce. Non mostriamo sempre e solo le cose che fa comodo mostrare.
Premetto che sono d’accordo con il contenuto del libro, ma circa il termine “casta” amerei fare dei distinguo: va bene per focalizzare il concetto, dato che è un termine di moda, ma lo ritengo improprio perché non penso esista fisicamente una casta che decide intenzionalmente per gli altri.
“Casta” è una parola assai antipatica, me ne rendo conto, ma per me non deve essere vista a tutti i costi come un termine atto a delineare un ben preciso gruppo di persone. Ho usato il termine incriminato perché è quello che mi è venuto per primo in mente, perché è un qualcosa che tutti capiscono e perché - alla fine dei conti - non ho trovato di meglio. Quello che però io intendo per Casta non è a tutti i costi la gang dei cantanti famosi. La Casta non è l’essere famosi, è la manipolazione dei mass media per controllare quello che noi ascoltatori possiamo o non possiamo fruire. La Casta è la non-libertà di godere delle interessanti musiche che ci circondano. La Casta è il non sapere che esistono tali musiche. La Casta è il disinteresse per le sorti della nostra cultura, il potere imposto, la pigrizia mentale, i cambiamenti che non avvengono, i discorsi da bar, le leggi non scritte, l’ottusità, la convinzione di avere una verità assoluta in pugno, la non-percezione di altri modi di essere, di vivere, di concepire la realtà. In ultima istanza il non essere democratici e il volere imporre solo il proprio pensiero sul resto del mondo.
In “O casta musica”, ci sono però degli aspetti che non tratti: il fatto che la società di massa in cui viviamo tenda verso la banalizzazione di qualsiasi prodotto, in quanto un prodotto banale, semplice, è più facile ed economico da produrre, “riciclare” in salse nuove, piuttosto che tendere verso un progresso e un raffinamento sempre maggiori delle merci stesse (e la musica, quando la si deve vendere, è un prodotto come il dentifricio); il fatto che il continuo rinnovo generazionale degli utenti di musica non permette di partire mai da basi già consolidate, ma comporti il ripartire sempre da capo, circa la cultura musicale; il fatto che le giovani generazioni, da sempre le maggiori consumatrici di musica, un tempo (parlo degli anni 60 e 70) appartenevano soprattutto alla piccola e media borghesia, quindi possedevano un background culturale di un certo spessore (pensa all’influenza del jazz sul rock che fa nascere prima la psichedelia, poi il progressive del filone Canterbury; o a quella della musica classica sul rock che fa nascere il rock sinfonico; infine a quella della musica colta contemporanea (penso a quella concreta di Berlioz o di Cage e/o a quella elettronica di Stockhausen o Riley) che fanno nascere noise ed elettronica, mentre oggi da un lato la musica è disponibile gratuitamente, dall’altro abbiamo assistito a un livellamento culturale verso il basso che ha coinvolto non solo le classi medie, ma anche quelle alte... Insomma, ci sono altri fattori. Che mi dici?
Direi che hai centrato molte delle problematiche in maniera più che perfetta. Però alla fine anche se siamo nella merda credo che le potenzialità per uscirne ci siano tutte. Ad esempio, sarò troppo ottimista ma piazze virtuali come Facebook o Twitter hanno fatto sì che moltissime persone che la pensano allo stesso modo potessero riconoscersi, in qualche modo unirsi e dire a loro. E di persone stufe dell'andazzo ce ne sono eccome! Chi osserva tutto questo non può non rendersene conto. Abbiamo un'Italia che riempie gli stadi per Ligabue? Vero, ma c'è anche un'altra Italia che riempirebbe gli stadi per artisti diversi. Un'Italia affamata di cultura che per un motivo o per l'altro non riesce o non ha voglia di andarsi a cercare le cose ma che attende solo che musica più interessante sia proposta a livello mediatico. Sfatiamo un mito, non è che nel nostro paese solo chi fa musica più commerciale ha successo. Ogni volta che Peter Gabriel o i già citati Sigur Ros calano nel nostro paese si riempiono i palazzetti. I Radiohead e le 30000 persone a data dell'ultimo recentissimo tour dove le mettiamo? E questa gente che ascolta e gradisce quel tipo di musica (che non è certo il pop da “Amici”) avrebbe la capacità e lo spirito di apprezzare anche molto altro se si avesse l'accortezza di proporlo. Magari non si riempirebbero gli stadi ma pian piano le cose potrebbero crescere. L'Italia non è un Paese di idioti, è però in mano a una massa di idioti che decidono quello che è giusto o non giusto fare ascoltare. Questo è il problema.
Tranne rare eccezioni, la musica alternativa di oggi mi pare offra prodotti interessanti, carini, ma nettamente inferiori ai corrispettivi del passato. Sono convinto che grande responsabilità in tutto questo la abbia la necessità di autoprodursi, che costringe un musicista a incanalare le sue energie in cose lontane anni luce dalla creatività. Insomma, io non me li vedo un Jim Morrison o un Syd Barrett che chiamano i gestori dei locali per trovare un concerto o si occupano di capire le tecniche di registrazione. Cosa ci stiamo perdendo?
Beh, ci sono stati fior di artisti che hanno perso tanto tempo, specie all'inizio delle loro carriere, a cercare di organizzare concerti. Senza contare poi tutti quelli impallati con le tecniche di registrazione. Il tutto senza perdere creatività, anzi. Credo che il problema non sia solo lì. O meglio, credo che un giusto filtro vada impostato dall'inizio e i gruppi prima di lanciarsi in autoproduzioni selvagge dovrebbero avere il buon senso di cercare chi può dare loro una mano a tirare fuori il meglio, non accontentarsi di registrare su un pc buona la prima e via, senza nessuna intermediazione da parte di un eventuale produttore. Credo però che in generale in questo momento manchi proprio la giusta ispirazione che permette agli artisti di tirare fuori opere meritevoli, al dì la del fatto che siano autoprodotte o meno. Il trend dell'indie italiano è secondo me il grande bluff degli ultimi anni che permette escano fuori prodotti di basso livello seguiti da una schiera di altri prodotti di ancor più basso livello. Che abbiano successo Emma, Alessandra Amoroso, ecc., è drammatico ma in qualche modo capibile. Fanno una musica perfetta per una larga fetta di giovanissimi alquanto influenzabili che si ritrova a condividere con la cantante di turno problematiche legate a una certa età, testi particolarmente toccanti e canzoni semplici che se non le ascolti non sei “giusto” perché tutti gli altri le ascoltano. Ma che possano avere “successo” alcune delle proposte che l'attuale Italia indie propone (e che molti siti pompano a dismisura) lo trovo un qualcosa di totalmente assurdo e irrazionale. Si tratta di prodotti fatti male, mal composti, mal suonati, mal cantati. Ma non male tecnicamente, perché se c'è uno che delle tecnica se ne frega quello sono io, ma male come concetto. Buttati lì, sciatti all'inverosimile, stupidi eppure pompatissimi da tutti i siti e riviste che pensano di creare il nuovo trend con l'ennesimo clone di Rino Gaetano (già insopportabile di suo). Se qualcuno conosce cosa sta dietro a tutto ciò me lo comunichi, io sinceramente non l'ho capito.
Oltre a scrivere pamphlet, tu fai il musicista. In 12 progetti diversi (se non ne ho perso qualcuno). E suoni prevalentemente un genere oggi di nicchia, il progressive rock. Eppure riesci a vivere del tuo lavoro.
È vero che ho tanti progetti, ma conta che più di una buona metà di questi sono stati one-shot projects oppure situazioni momentaneamente sospese. Le cose che mi impegnano full-time al momento sono soprattutto la Maschera Di Cera, Hostsonaten e il mio progetto solista. Diciamo che il lavoro duro e senza sosta, specie negli ultimi dieci anni, ha fatto in modo che oggi, nel 2012, possa sopravvivere di quello che faccio. Mi sono creato un certo nome nell'ambito del prog e probabilmente i dischi nei quali sono coinvolto sono visti oramai come una sorta di “garanzia di qualità” permettendomi buone vendite. Oltre a questo c'è il mio lavoro come direttore artistico al servizio di altri artisti. Ma questo è oggi e “del doman non v'è certezza”. Le cose potrebbero andare meglio come assai peggio. Io sono abbastanza ottimista per natura e siccome ho visto in questi vent'anni le cose andare lentamente sempre più in direzione positiva auguro a me stesso il meglio per il futuro ma essendo questo un lavoro precario che più precario non si può sempre meglio gettare svariati ami nel lago per lasciarsi aperte più possibilità.
Una tua peculiarità è affrontare un capolavoro del passato e sviluppare da lì nuove composizioni: lo hai fatto con “Ghiaccio”, ispirato ad “Anima latina” di Lucio Battisti, e con “La foce del ladrone”, ispirato a “La voce del padrone” di Franco Battiato.
È una cosa che mi piace molto e che sta per avere una gustosa appendice col nuovo Maschera Di Cera. Purtroppo non posso entrare più nel dettaglio al momento, dico solo che il nuovo MDC può essere visto come una sorta di conclusione di una trilogia iniziata appunto con Ghiaccio e proseguita con La foce.... Trilogia che vede il mio (ma nel caso di MDC non solo mio) tentativo di “smontare” alcuni importanti dischi del passato e rimontarli a mio modo, prendendo da essi punti musicali e a volte frammenti veri e propri per costruire nuove canzoni. Credo che in taluni casi una certa dose di imprudenza sia ciò che ci vuole, anche perché certi capolavori a volte si ha paura solo a nominarli, figurarsi a metterci mano dandone una versione personale. Credo però che questa sia una delle strade possibili per la musica del futuro. Nel mondo della classica a distanza di anni molti compositori hanno ripreso lavori di altri rendendone loro personali versioni. Ma non cover, bensì riprese di temi, sviluppi, ri-arrangiamenti, seguiti.... Nel rock e pop questo ancora non è d'uso comune ma credo sarebbe interessante sentire artisti che propongono (oltre che cose nuove naturalmente) tentativi di ri-plasmare materiale già edito, anche dal grande blasone.
Altro progetto interessante è Hostsonaten, con cui hai messo in musica “The Rime of Ancient Mariner”, poema ottocentesco dell’inglese Coleridge.
Si, adoro le atmosfere surreal-horror-metafisiche del poema di Coleridge e una sua trasposizione musicale mi sembrava stimolante e positiva. Mi piace poi lavorare su dischi che abbiano un senso. Adoro certa letteratura e credo che sia d'obbligo per qualsiasi tipo di musicista trasferire nel proprio lavoro una visione, un sapore, un qualcosa che sia sì musica ma che riesca a evocare anche qualcos'altro. Per me un disco non è mai una semplice raccolta di pezzi ma un qualcosa che deve avere una scintilla che mi comunichi qualcosa che va anche al di là delle note. Sono assolutamente contro i dischi magari suonati ottimamente ma vuoti di significato. E nel prog ne trovi tantissimi. Ogni nota che suoni, ogni maschera che indossi se vuoi fare il Gabriel dei nostri tempi, ogni parola, devono avere un senso. Un album che ho sempre adorato e che sempre adorerò è Nursery Cryme, perché non è solo musica, è un vero libro antico e polveroso ritrovato in qualche solaio. Un libro che spalanchi e ti meraviglia ogni volta per il suo fascino. Quando Gabriel si mascherava non recitava, era veramente quei personaggi. Per questo ce lo ricordiamo ancora con immutato fascino. Nel momento in cui con la musica trasmetti queste sensazioni credo che puoi considerare riuscito il tuo lavoro. Con certo prog “di moda” oggi, assai influenzato da metal e dintorni, l'immaginazione è andata un po' a farsi benedire; sembra sempre di assistere a una parata di bolidi ipertecnologici perfetti ma fondamentalmente inutili. Se la mettiamo da questo punto di vista preferisco il fascino d'altri tempi di una carrozza, magari imperfetta ma dotata di un'eleganza che la rende unica.
Non pago di suonare e scrivere libri, il 30 agosto hai annunciato la nascita di una nuova etichetta discografica, la Mirror records.
In realtà le cose stanno in maniera leggermente differente. Non ho messo su una nuova etichetta ma sono stato invitato ad assumere la posizione di direttore artistico per la neonata Mirror, sottoetichetta di BTF, distributore/label milanese nell'ambito del rock progressivo, il più importante in Italia per il genere. Mirror si occupa prevalentemente della scoperta di nuove band che abbiano qualcosa da dire rispetto al genere e che soprattutto abbiano voglia di mettersi in gioco e fare il contrario di quello che dicevamo più sopra quando si parlava di “autoproduzioni selvagge” e poca attenzione al lato artistico. Con Mirror io e il mio collaboratore Rossano Villa all'Hilary Studio di Genova cerchiamo di far sì che l'artista pensi a fare unicamente l'arista tirando fuori il meglio dalla sua inventiva. Noi poi ci preoccupiamo di fare in modo che il progetto esca fuori al meglio; Rossano per quello che riguarda la registrazione e molti aspetti tecnici e io per i consigli sulla scelta dei suoni, degli arrangiamenti e della costruzione generale del progetto. In pratica facciamo quello che non si usa più fare. Da questo punto di vista i gruppi che scegliamo di produrre devono essere assai propensi a farsi guidare e a imparare da questa esperienza per fare in modo che tutti si sia soddisfatti e che il prodotto possa uscire fuori al meglio.
Che senso ha un’etichetta discografica oggi? Voglio dire: il mercato non esiste più, di conseguenza i budget sono esiguissimi e non si può supportare un artista coi mezzi di una volta (l’esempio classico è l’ostinazione con cui la Rca credette in Lucio Dalla, aspettando nove anni prima che facesse il botto sul mercato, ma offrendogli sempre nel frattempo mezzi tecnici, collaboratori e vetrine di prim’ordine).
Ha senso se si ritorna un poco a pensarla come ai tempi dei tuoi esempi. L'etichetta dove avere la funzione di incubatrice per artisti facendo in modo che il talento possa sbocciare, anche con l'aiuto di figure come quelle del direttore artistico che negli anni si è persa. Vero che oggi i budget sono esigui e che ai gruppi viene chiesto un investimento anche economico sulle loro capacità, se ci credono, ma è vero altresì che bisogna sforzarsi sempre di dare spazio a chi merita veramente. E chi merita (a meno che non sia un genio che riesce a fare tutto da solo) va coltivato e si deve trovare il modo migliore perché possa esprimersi. Proprio come un Lucio Dalla per il quale sono stati necessari nove anni prima di vederlo esplodere. Chiaro, io mi muovo all'interno di un genere che offre le briciole delle briciole a livello di successo e riconoscimenti ma come sono riuscito io a farmi un nome nessuno vieta di far crescere altri musicisti che possono avere le chance di fare anche più di quello che ho fatto io. Poi chiaramente se fai musica prog a un certo livello tutto si ferma e non puoi fare “carriera” (vedi il mio discordo iniziale), ma nonostante ciò non bisogna mai smettere di lavorare e lottare per quello che credi sia giusto.
Cosa bolle in pentola per il prossimo anno?
Poco prima della fine dell'anno, il 16 dicembre, rappresenteremo in teatro (al Verdi di Genova Sestri Ponente) The Rime Of The Ancient Mariner con musica dal vivo, danza, videoproiezioni... Il tutto sarà ripreso per un dvd che uscirà nel 2013. Poi il nuovo MDC a gennaio, le produzioni Mirror e l'uscita dei dischi delle prime due band coinvolte, Oxhiutza e Unreal City, la nascita di un nuovo gruppo, forse un nuovo libro e il secondo capitolo di The Rime...
Articolo del
12/11/2012 -
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