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La data riportata qui sopra è sbagliata, in realtà siamo nel 1969. Tutto quello che leggerete potrà sembrarvi esagerato, il problema è che se non c’eravate non potete sapere.
Che si trattasse di una data dalle potenzialità leggendarie l’ho capito alle 20 e 30, quando i DeWolff stavano ancora eseguendo il soundcheck, ma già da lì l’idea che questa band avesse qualcosa di speciale è iniziata a maturare nella mia mente. Tanto per cominciare la resa sonora è tale e quale al disco, ma la cosa più sconvolgente è stata vedere le facce di questi tre ragazzi olandesi, quindi ricordarmi la loro età, che va dai 18 anni di Luka Van de Poel (batteria) ai 22 di suo fratello Pablo (chitarra e voce) passando per i 21 di Robin Piso (organo e basso). Di lì a poco, dopo averli conosciuti in sede di intervista, quindi aver assistito alla loro esibizione, la mia considerazione su di loro raggiungerà ragionevolmente i più alti livelli possibili, tutto giusto, tutto meritato, ma anche tutto inspiegabile in realtà, perchè so già che sembrerà tutto esagerato, ma ci proverò lo stesso. Non sono state nemmeno le somiglianze estetiche più che illustri a spianargli la strada verso una facile e regalata simpatia, dal momento in cui Robin sembra Jim Morrison, mentre Pablo alterna momenti in cui assomiglia ad un giovanissimo David Gilmour, salvo poi indossare una giacca di velluto liscio rosso bordeaux e ricordare il primo invasato Angus Young. Il più giovane della band, Luka, invece in prima battuta non mi riporta alla memoria nessuno in particolare, finchè non inizia a suonare ed allora, viste le movenze, mi sembra di avere davanti, in tutta la sua disarticolata armonia, il grande Keith Moon. Prima di chiudere il capitolo “estetico” una menzione di merito va fatta anche all’abbigliamento, totalmente in linea con il sound della band, del resto ve l’ho detto già prima, siamo nel 1969 e quello che mi suona in tasca non è un cellulare, perché ancora non li hanno inventati...
Come ho avuto modo di dire anche ai diretti interessati, i DeWolff viaggiano almeno una spanna sopra molte altre band di colleghi, dal momento in cui sono in tanti ad ispirarsi alle grandi leggende del rock anni 60/70, con risultati che più o meno vanno vicino all’intenzione, ecco, se questa ricerca di sound fosse metaforicamente un tirassegno i DeWolff avrebbero fatto centro. Il fatto di essere una band moderna che suona come si usava una quarantina abbondante di anni fa (oltretutto di età così giovane) nel 99% dei casi rappresenta uno svantaggio, perché il confronto coi miti che hanno indicato i sentieri del rock è inevitabile e pesante, ma i Led Zeppelin, o i Doors, o i Deep Purple nacquero già leggende? La risposta è no, i vari signori Morrison, Manzarek, Krieger, Paige, Bonham, Plant, ecc.... non sono nati con l’aurea mistica con la quale li vediamo oggi, sono stati anche loro dei comuni “giovanotti” che suonavano in una band. I DeWolff sono questo, senza aver nulla da invidiare se non l’anno riportato sul calendario, con annesso contesto socio-culturale, hanno la genuinità di quei gruppi nel momento in cui, ignari di cosa sarebbero diventati, muovevano i loro primi passi da rock-star.
“Genuini”… Pablo va pazzo per questa definizione che gli ho affibbiato, del resto non è solo il cantante e chitarrista, ma anche l’arrangiatore e probabilmente la mente della band, vista la sua preparazione targata Conservatorio di Amsterdam. Tutto assume senso e forma, un risultato finale così sopraffino non poteva essere frutto del caso, la passione e l’ispirazione sono state veicolate nel modo giusto, quello che di fatto gli hanno dato i mezzi per fare quel “centro” di cui parlavo prima. Nei DeWolff si riscontrano l’imprevedibilità dei migliori Mars Volta, la potenza dei Wolfmother, la solenne autorevolezza dei Rival Sons, le profonde radici di Jack White e l’accattivante appeal dei Black Keys, unite in un’alchimia che rende il tutto eterogeneo ma compatto e soprattutto puro. Rispetto ai nomi appena citati differiscono solo nella misura della fama e della visibilità, ma per quella c’è tempo, in effetti a vent’anni possono ancora divertirsi, il loro è un vantaggio, così giovani sono già arrivati dove altri non sono riusciti in una vita e se troveranno anche il modo di diventare diretti come oggi lo sono i Black Keys o Jack White ad esempio, che riescono nell’ormai perduta arte di concepire singoli di alto livello qualitativo ma anche in grado di far breccia sul gradimento della massa, allora non ce ne sarà più per nessuno. Se poi riusciranno anche a prendersi il mercato, in termini di nuove e giovani leve, introducendoli a questo tipo di sound allora si potrà addirittura gridare al miracolo. Questo, volendo essere materialisti, è quello che si augura ad un gruppo... il successo, la fama “purchè non li snaturi”, un po’ come volere la moglie ubriaca e la botte piena, è vero, anche se in realtà ai miei occhi e di quelli che hanno assistito all’esibizione dell’Acrobax i DeWolff sono già i numeri uno.
La performance è stata un tuffo di testa in un vortice di melodie psichedeliche, ritmi serrati, riff taglienti, assoli maturi, impetuosi, ben scritti e mai lasciati al caso. Di tanto in tanto sbuca qualche assonanza con celeberrimi brani del passato, allora potremmo parlare della somiglianza del tappeto strumentale di Pistol con quello di Light My Fire dei Doors, o che in Devil’s Due la linea di basso che accompagna il solo di chitarra ad un certo punto porta istintivamente a canticchiare il riff di Heartbreaker dei Led Zeppelin, ma questo significherebbe analizzare i brani dal punto di vista sbagliato, un po’ come contestare agli stessi Zeppelin di essersi ispirati agli Spirit quando hanno scritto Stairway To Heaven, sminuendone il reale valore. Di fronte a pezzi come Crumbling Heart che passa magistralmente da momenti prog a blues con innesti rock’n’roll non ci si può che inchinare. Nonostante ufficialmente (quindi se non esistessero internet e le sue vie magiche) l’ultimo album del trio olandese sarebbe Orchards/Lupine, i DeWolff eseguono diversi pezzi dal loro vero ultimo lavoro ancora non pubblicato in Italia, IV, ma non disdegnano nemmeno sguardi al loro disco di esordio (Strange Fruits And Undiscovered Plants) e se Medicine, blues lento con un andazzo alla Since I’ve Been Loving You, è già affascinante, Don’t You Go Up The Sky ha dei momenti assolutamente sconvolgenti se si considera che è stata pubblicata nel 2009, tre anni fa... e quando calcolo l’età che questi ragazzi avevano allora mi vengono i brividi.
Un momento. Perché l’ultimo album si chiama IV quando dovrebbe essere il terzo? Burle? No... La non familiarità degli ultimi due brani in scaletta mi ha dato la risposta che cercavo, infatti esiste un omonimo EP di esordio dei DeWolff, datato sempre 2009, dal quale hanno estratto Thrills That Come Along With The Landing Of A Flying Saucer, caratterizzata da continui cambi di ritmo tra momenti soft e cavalcate, spalmati su 10 minuti di pezzo.
La band abbandona il palco, ma rientra praticamente subito acclamata a grandissima voce dai duecento fortunati presenti, giusto il tempo di sistemare il cavo di Pablo che faceva le bizze, quindi ecco la chiusura in bellezza con Gold And Seaweed, un blues veloce arricchito da incisi che mettono in evidenza le capacità di Luka prima, con un mini-solo di batteria, poi quelle di Robin, conducendo al finale corale che fa spellare le mani ad ogni singola persona presente nei paraggi. Una band così non l’ho mai vista, a dire il vero non sono ancora sicuro che i DeWolff esistano veramente o se le birre che ho bevuto fossero corrette con l’LSD, se dovesse essere così almeno so che quando mi ricovereranno in una clinica di igiene mentale non sarò da solo, ma in buona compagnia di tutti quegli spettatori che dopo la fine del concerto hanno fatto la fila fuori dal camerino per andare a stringere la mano ai membri di questa band incredibile.
Articolo del
09/12/2012 -
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