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Un concerto che riconcilia con la musica, un live act incantevole, che mescola folk revival, opera e minimalismo di avanguardia, accompagna il ritorno a Roma di Josephine Foster, songwriter americana originaria del Colorado, ma che da qualche tempo si è trasferita in Europa e attualmente vive in una città di provincia in Spagna.
La ricordavamo in una esibizione di due anni fa al Circolo degli Artisti, quando si era presentata da sola, alternandosi alla chitarra e al piano, per presentare Graphic As A Star, un album tratto dalle poesie di Emily Dickinson, da lei messe in musica senza alterare le liriche. Adesso invece si presenta con il suo gruppo, una line-up che risulta formata da Victor Herrero, alla chitarra elettrica, da Ailbhe Nic Oireachtaigh alla viola e da Alex Neilson, ex Current 93 alla batteria. Gran parte del repertorio del concerto è costituita da brani tratti da Blood Rushing, il suo nuovo disco, uscito appena due mesi fa per la Fire Records. L’album è molto bello ed è stato registrato interamente in Colorado, davanti ai suoi monti, dove Josephine è tornata proprio per trovare la concentrazione giusta. Il fatto di esibirsi con una band e di lavorare stabilmente con un gruppo composto da musicisti spagnoli, come Victor, il suo compagno, e anche irlandesi come la giovane Ailbhe, ha davvero aggiunto qualcosa alla musicalità basica ed essenziale della Foster, che da giovane cantava per i matrimoni e per i funerali, che ha studiato per molti anni come cantante d’opera, che ha all’attivo anche collaborazioni con Devendra Banhart e incursioni nel free jazz.
Brani come Blood Rushing, una bellissima ballata acustica oppure Child Of Mine e ancora l’ispirata O Stars, con quel suo intrigante arpeggio acustico e quel continuo dialogare fra chitarra e viola, rivelano sia una notevole crescita sul piano compositivo sia il desiderio di cogliere degli elementi musicali propri della cultura ispanica e di quella celtica. Non mancano, a dire il vero, momenti più ritmati, decisamente percussivi, come Geyser, per esempio, dove emerge una mai sopita chiave psichedelica. Ma ciò nonostante quello che resta è comunque il suono della sua voce, delicata ed ammaliante, un vero e proprio dono per quanti hanno la fortuna di ascoltare. La disposizione naturale verso il canto di Josephine contiene sia elementi marcatamente religiosi, molti dei suoi brani infatti sono inni di lode al Creatore, sia una spiritualità laica, più accessibile a tutti, che si rivolge a Madre Natura attraverso canti dal sapore arcaico ma comunque bellissimi. La Foster non ama la musica moderna, guarda al passato per costruire un futuro migliore e si propone come interprete di un folk-blues in stile anni Trenta, che tiene conto della tradizione classica e operistica, ma che allo stesso tempo non le vieta improvvise virate verso l’avanguardia più pura.
“Riconosco l’importanza delle mie radici musicali“ ha dichiarato “Ma non lascio che questo mi condizioni troppo. Voglio sentirmi libera”. La bellezza quasi anacronistica del suo canto in esecuzioni come Underwater Daughter e The Wave Of Love ci mettono quasi in imbarazzo. Le sue liriche sono brevi poemi musicali , un vero e proprio riferimento letterario, un libro aperto a cui attingere alla ricerca di un linguaggio comune per codificare le nostre emozioni. In lei rivivono le vibrazioni di un lirismo antico, che effettua il suo percorso in una maniera poco scolastica, ma comunque efficace. “Fare musica non è un processo logico” ci ha detto “E’ un modo per venire a patti fra quello che sei e i tuoi desideri più profondi, che cerchi di comunicare. La musica troppo complicata non fa per me: mi limito a scrivere soltanto delle rime che poi cerco di arrangiare musicalmente, aiutata in questo ultimo album anche da Victor. Tutto qui”.
(La foto e il video di Josephine Foster all'Init di Roma sono di Giancarlo De Chirico)
Articolo del
14/12/2012 -
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