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Laurie Anderson è costretta a un fuoriprogramma dai capricci dell’impianto elettrico della Sala Sinopoli dell’Auditorium: sale sul palco con le luci accese per riprogrammare la sua valigia dei suoni andata in tilt a causa di un blackout. Scende e quando poi risale, è come se davanti a noi ci fosse Bob Dylan, quello dei primi anni ’60, l’eroe della canzone di protesta, di cui lei è la naturale evoluzione 50 anni dopo. Il tono è pacato, la canzone di protesta nel 2013 non imbraccia la chitarra ma un violino elettrico modificato, o armeggia con una 24 ore nera da cui escono rumori di elicottero, brontolare di basso, basi manipolate che sonorizzano i lunghi monologhi. Lei, la cantastorie, si muove come se facesse Tai Chi e parla di morte, perdita e della degenerazione dell’umanità. DirtDay è come bisognerebbe ribattezzare l’EarthDay, anche se lo sporco è più che altro quello prodotto dall’inquinamento morale: la tendopoli di Lakewood con i suoi abitanti derelitti che hanno perso casa e lavoro, il modo di somministrare la morte nelle metropoli, asettico, con il minor disturbo possibile; l’amico appena defunto a cui due lama urlano nelle orecchie le indicazioni per trovare la strada nell’aldilà; il presidente Obama che il 31 dicembre firma una legge che consente l’imprigionamento a tempo indeterminato senza nessuna accusa di qualsiasi cittadino americano, e trasformando il Paese in un campo di battaglia come nella Guerra Civile, squarcia il velo ipocrita che assilla l’identità americana: “il nemico siamo noi”, è dentro di noi, e di conseguenza non sono più tutti gli altri - pellerossa, comunisti, terroristi islamici.
Davanti a un pubblico più scarso di quello che una settimana prima Jane Birkin aveva ringraziato per essere venuto a sentirla “nonostante i problemi che avete”, Laurie attraversa con grazia austera lo spettro delle emozioni umane con ironia, acume, senso dell’umorismo, lucida profondità. Lo fa in uno scenario insolitamente analogico: in mezzo a un tappeto di lumini di indubbia provenienza Ikea, con una lampada accanto a una poltrona nera squadrata su cui si siede a leggere da un taccuino pagine consumate di diario, e un cavalletto da pittore con una tela bianca che cambia colore e su cui per qualche minuto proietta brevi video del suo cane Lolabelle che suona il piano. Il pubblico assorbe le parole di una grande raccontastorie, capace di citare Darwin, Willie Nelson e il Libro Tibetano dei Morti in un’ora e mezza o forse meno. La sensazione è di aver trascorso una serata con lei nel salotto di casa sua, ascoltandola conversare amabilmente, rivelando qualche quadretto familiare: la vediamo passeggiare per il West Village con Lou Reed e Lolabelle.
Alla fine si torna a casa con qualche verità su cui riflettere per mesi, forse anni: “lo scopo della morte è la liberazione dell’amore”, “bisogna imparare a sentirsi tristi senza essere tristi”, “il 90 percento delle persone non sta con chi vorrebbe stare, ed è questo che fa girare il jukebox”. A voi decidere se l’ultima citazione ha più a che fare con il Libro Tibetano dei Morti o con Willie Nelson.
Articolo del
18/03/2013 -
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