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Tante luci ma anche qualche ombra nella terza apparizione di John Grant sul suolo capitolino, la prima dall’uscita di Pale Green Ghosts, il tipico disco di transizione che ha lasciato divisa la critica e spiazzato il pubblico. Nativo del Michigan ma cresciuto nel Colorado, Grant ha vissuto per lunghi periodi a New York e a Berlino; di recente si è trasferito a Rejkjavik in Islanda, ed è lì che ha partorito e realizzato (con l’ausilio di Biggi dei GusGus e di Jonsi dei Sigur Ros) la sequenza di nuove canzoni che ora sta presentando in giro per il mondo. Il punto è che oggi John Grant sembra essersi (parzialmente) distanziato dal soft-rock pianistico che era la cifra dominante del precedente, universalmente apprezzato, Queen Of Denmark, volendo sperimentare – e sperimentarsi – all’interno di una musica dominata da suoni sintetici e da samples. Una scelta indubbiamente coraggiosa, dettata dalla mai sopita attrazione di Grant verso quel sound che molto aveva amato durante la travagliata adolescenza a Denver (in un’intervista ha rivelato di essere stato, negli anni Ottanta, una sorta di New Romantic) ma anche dal fatto che stiamo qui parlando di un artista vero, impulsivo ed irrequieto e sempre desideroso di (ri)mettersi in gioco.
Magari è l’atmosfera quasi da accademia della Sala Petrassi, ma stasera, quando fa il suo ingresso in scena, l’orsacchiottone Grant sembra più teso e meno a suo agio rispetto all’occasione precedente in cui lo vedemmo, due anni fa al Circolo degli Artisti. Quella volta era affiancato unicamente dal tastierista dall’aria da folletto Chris Pemberton; adesso, oltre allo stesso confermato Pemberton si avvale anche di una band di musicisti islandesi reclutati in loco per l’occasione: Pétur Hallgrímsson alla chitarra, Jakob Smári Magnússon al basso, Kristinn Agnarsson alla batteria, e l’effettista Birgir Pórarinsson proveniente dai GusGus. Trattasi di illustri sconosciuti, ma solo in teoria: in verità è tutta gente che, a suo tempo e a vario modo, ha fatto la storia della musica Made in Iceland (non per nulla, per fare un esempio, Magnússon da ragazzo fece parte della prima band di una certa Bjork). L’inizio è affidato a Ernest Borgnine, scritta da Grant quando ha saputo di essere rimasto contagiato dal virus dell’HIV (“Dad keeps looking at me says I got the disease / Now what did you expect? You spent your life on your knees”). Ma Grant stasera non si dilunga sulla sua vicenda e sulle cure che sta facendo, e in verità appare meno ciarliero dell’altra volta, concentrato soprattutto sulla resa della (nuova) musica elettronica suonata con la band e impegnato a trovare, con l’aiuto del fonico, un equilibrio tra i volumi degli strumenti (che, almeno all’inizio, non è ottimale). Il suo obiettivo è presentare Pale Green Ghosts, quasi fosse uno showcase, e farlo nella migliore maniera possibile. Scorrono così uno dopo l’altro tutti i brani del disco e, nel rimescolamento operato in questa dimensione live, ci danno la possibilità di formarci un’idea – per così dire – “definitiva” – sul loro valore. Così, appare lampante che in alcuni di essi - Ernest Borgnine e Black Belt in particolare – la fusione a freddo tra i suoni sintetici e il songwriting venato di classicismo pop non ha funzionato granché bene: la voce baritonale di Grant e le sue umanissime liriche sembrano quasi degli intrusi non graditi in mezzo a quelle ritmiche robotiche e impersonali. Le uniche eccezioni sono la title-track – contrassegnata da un bel groove - e, soprattutto, la strepitosa Sentitive New Age Guy, dedicata dal cantautore a un suo caro amico che si è tolto la vita; ricorda nello stile le cose migliori degli LCD Soundsystem, ed è un parallelo che non deve destare sorpresa se si pensa alle recenti collaborazioni di Grant con il collettivo newyorkese Hercules & Love Affair, il cui primo album è stato prodotto proprio dal team DFA di James Murphy. In generale, però, il meglio di Pale Green Ghosts è rappresentato dalle ariose ballate con orchestra (seppur sintetizzata) il cui vertice assoluto è GMF - da annoverare tra le migliori canzoni di questo 2013 - al termine della quale Grant, ridacchiando, ci rivela che il vero “Greatest Mother Fucker” è il chitarrista Pétur Hallgrímsson (ma senza spiegarci perché). Anche It Doesn’t Matter To Him e Why Don’t You Love Me Anymore fanno la loro splendida figura, come anche la quasi-country I Hate This Town, mentre un altro paio di episodi che musicalmente non sono da disdegnare (You Don’t Have To e Glacier) non convincono appieno per via di liriche in cui Grant scade - per una volta - in un trito gay-didascalismo con qualche accenno di predicozzo: “Don't listen to anyone, get answers on your own / Even if it means that sometimes you feel quite alone / No one on this planet can tell you what to believe / People like to talk a lot and they like to deceive...” Le richieste del pubblico, a questo punto, spingono Grant a tornare sul suo (glorioso) recente passato. Messosi alle tastiere, intona prima Tc & Honeybear, e quindi una intensissima Queen Of Denmark, che continua a restare tra gli apici del pop neomillenario. Nell’unico bis, infine, immancabile, arriva anche I Wanna Go To Marz, sublime metafisica invocazione cantata e applaudita da tutto il pubblico all’unisono.
Commettiamo un peccato di lesa maestà se affermiamo che ci aspettavamo qualcosa di più? John Grant è uno di quei rari esempi di performer in grado di ispirare, coinvolgere e perfino commuovere per l’unico tramite di voce, musica e parole. Stasera però ha dato come l’impressione di voler svolgere il “compitino” (da professionista, ci mancherebbe altro) ma nulla più. E il fatto che abbia concesso solo una canzone a mo’ di encore conferma come quella di Roma – forse anche per colpa del troppo austero Auditorium – vada semplicemente considerata una serata meno riuscita della media. Capita. Ma il sensibile gigante del Colorado è e resta un fuoriclasse. Questo non si discute. E chissà, magari un giorno riuscirà pure a trovare la difficile “quadra” tra il synth-pop e il suo caratteristico stile di songwriting. Se – e quando – ciò accadrà, be', allora ci sarà ben poco da storcere il naso.
SETLIST:
Ernest Borgnine You Don't Have To GMF Vietnam It Doesn't Matter To Him Pale Green Ghosts Black Belt Sensitive New Age Guy Why Don't You Love Me Anymore I Hate This Town Glacier TC And Honeybear Queen of Denmark Encore: I Wanna Go To Marz
Articolo del
18/04/2013 -
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