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Patti Smith era (è) una Punk-Rocker. Lo dimostra ampiamente durante l’ultimo encore della serata, quando con ardore settantasettino inizia a intonare le immortali liriche: “Baby was a black sheep, baby was a whore, baby got big and she’s gonna get bigger...!” In breve: Rock And Roll Nigger, uno dei momenti più alti di quella ormai remota stagione denominata Punk (e che poi si trattasse di quello più “art” di estrazione newyorkese invece della più proletaria versione londinese fa, in fondo, poca differenza). Un pezzo bruciante, che – ora come allora, nonostante la 66enne Smith non sia più accompagnata dallo storico PSG ma da una più generica “Her Band” con le uniche (ma quanto importanti) conferme del suo pluriennale sidekick, il chitarrista Lenny Kaye, e del batterista Jay Dee Daugherty – ora come allora non manca di innescare nei presenti una potente scarica d’adrenalina, tutti in piedi sotto il palco a ringhiare, neanche fossimo degli squatters della Lower East Side di NYC: “outside of society – that’s where I wanna beeee!”. E ci sono altre epifanie Punk, stasera, come quando la Smith canta/declama le liriche di Land, e giunge alla strofa dove “The boy looked at Johnny”. Qui la nostra mente va immediatamente a quell’epocale anfetaminico libello dal titolo omonimo, in cui i giornalisti dell’NME Julie Burchill e Tony Parsons ripercorsero la storia del Punk dai tempi dei Troggs a quelli, coevi degli autori, dei Pistols e dei Clash; e poi al fatto che per noi il Johnny del brano del Patti Smith Group è sempre stato visivamente associato a Johnny Rotten con i suoi denti storti, il viso butterato e la rabbia dell’outsider stampata sulla faccia. E’ decisamente Punk, poi, Patti Smith, quando risponde a brutto muso a una ragazza (o forse una signora) che protesta perché tutti si sono alzati in piedi a ballare sotto al palco e lei, dalla sua poltroncina salatamente pagata, ha la visuale ostruita: “Cara, non posso farci niente... ehi, renditi conto, questo è un rock’n’roll show!” Poteva arrivare una risposta diversa da una che ha calcato le scene dei punkissimi CBGBs e Max’s Kansas City?
E invece no. Patti Smith è (era) una Hippie. L’ultima degli Hippies, a volerla dire tutta. Quando nella New York della metà degli anni Settanta, insieme a Lenny Kaye, Richard Sohl (R.I.P.), Ivan Kral e Jay Dee Daugherty mise insieme il PSG, le sue stelle polari musicali erano Bob Dylan, Jim Morrison, gli Stones, Jimi Hendrix e Van Morrison. Altro che l’Anno Zero declamato dal Punk, lei si sentiva parte e intendeva muoversi nei solchi di una tradizione ben precisa. Ed è bizzarro che parte della critica consideri (tuttora) Horses, l’album d’esordio del Patti Smith Group (1975), il primo album dell’epoca della Nuova Ondata. In realtà è soprattutto l’ultimo della vecchia epoca “classica” del rock; di prove al riguardo ce ne sono a bizzeffe. La prima arriva fin dalla prima canzone di questo speciale concerto in cui Patti and Her Band sono impegnati a rivisitare Horses dall’inizio alla fine con lo stesso ordine di scaletta dell’LP: Gloria, la cover dei Them di Van Morrison. Un omaggio nei confronti del vecchio r’n’b di qualche tempo prima che negli anni Settanta sembrava scomparso dalla scena - ma non solo, perché la Smith si impossessò (e torna oggi a impossessarsi) del brano di Van The Man intervallandolo a suoi estratti poetici quale la memorabile strofa d’apertura “Jesus died for somebody’s sins but not mine” (talmente celebre, questa strofa, che la Smith l’ha impressa pure su una shopping bag che viene venduta a € 15,00 come merchandise nell’atrio dell’Auditorium). E poi c’è Birdland, quell’interminabile (e sempre mal sopportata dalla fazione Punk) poesia in musica dalla durata di una decina di minuti, che la Smith compose sulla scia di similari esperimenti effettuati da Jim Morrison, che a sua volta si rifaceva ai Beats. Ed Elegie, la ballata pianistica composta dallo scomparso Richard Sohl (a cui la Smith dedica l’esecuzione odierna) il cui testo le fu ispirato dalla (prematura) dipartita del suo idolo, il lungocrinito Jimi Hendrix. La Smith è una Hippie, poi, soprattutto perché nella fase finale del concerto, in coincidenza di canzoni come la fricchettonissima People Have The Power, si lancia in una serie di considerazioni che non avrebbero sfigurato a un raduno anti-Vietnam. Tipo: “state attenti ai politici, cercheranno sempre di fregarvi” (c’era bisogno che ce lo dicessi tu, Patti?) o “dovete credere in voi stessi, perché voi siete il futuro” (il che, considerando l’età media del pubblico assembrato sotto palco, tra i 50 e i 60 anni, appare un filino illogico).
E invece la verità sta nel mezzo, perché è proprio nella sensibile tensione tra Vecchio e Nuovo Ordine che risiede il fascino di un disco come Horses (ed è per questo che stasera ce lo siamo andati a risentire, 38 anni dopo la sua uscita). Perché – certo - Patti Smith era tendenzialmente attratta dall’estetica e dalla filosofia dei figli dei fiori, ma poi per fortuna al suo fianco c’era uno come Lenny Kaye (presente anche stasera, e acclamatissimo, con i suoi capelli argentati). Kaye, non dimentichiamolo, era colui che tre anni prima aveva assemblato per la Elektra il doppio LP Nuggets, rimettendo in circolazione le al tempo dimenticate “pepite” del garage-punk degli anni Sessanta (quelli “live fast and die hard”, però, non quelli elucubranti e psichedelici di Woodstock e dintorni). Era tutto - nell'animo - fuorché un Hippie, ed è grazie a lui se, oltre ai momenti più mistici e poetici tipicamente smithiani, su Horses e sugli altri tre LP del PSG troviamo anche tanti gagliardi esempi di quel sano (e, per l’epoca, innovativo) punk’n’roll che tanto abbiamo amato. Alcuni di quei brani - Free Money, Break It Up e Rock And Roll Nigger – li riascoltiamo anche stasera, intatti nella loro originaria dirompenza pur nella diversa identità degli strumentisti di contorno (i figli della Smith, Jesse al piano e Jackson alla chitarra, e Tony Shanahan al basso, oltre a Kaye e Daugherty). Non hanno più il senso di novità e la crudezza che avevano negli anni Settanta, ma piuttosto, oggi, il sapore dei “classici”, trattati con il rispetto e la considerazione che si deve a qualcosa di importante. E la voce di Patti Smith è più sgraziatamente bella che mai, solo leggermente più bassa rispetto a quando era una giovincella tra i venti e i trent’anni.
Horses (1975) rappresenta il punto di collisione tra la precedente epoca del rock “classico” e la Nuova Ondata. Dopo – con l’arrivo di Ramones, Television, Sex Pistols e Clash - nulla sarebbe più stato come prima. E’ per questo che possiede una valenza storica forse superiore al suo valore strettamente musicale: se si va a spulciare all’interno della discografia del Patti Smith Group, Easter (1978) è indubbiamente più bello e più completo, e Radio Ethiopia (1976) contiene un brano unico e monumentale come Rock And Roll Nigger, incomparabile con il resto della produzione. Rivisitare Horses è tuttavia un’esperienza, oltre che doverosa, oltremodo piacevole, soprattutto quando arriva il turno del pezzo forse migliore del disco, la reggata Redondo Beach (brillantemente ripresa da Morrissey qualche anno orsono). Nella seconda parte del concerto la Smith & Co. suonano due ulteriori classici del PSG: Dancing Barefoot e il grande hit Because The Night, che fa divampare la Sala Santa Cecilia rendendola simile a una babilonia. Spazio anche a pezzi del periodo post-ritiro dalle scene di Patti tra cui la recente (abbaiante) Banga e il “secondo pezzo più famoso di Patti Smith” (almeno in Italia), People Have The Power, cantato all’unisono da un popolo ormai in delirio. Quindi il finale di cui si è detto con Rock And Roll Nigger e la demolizione, da parte della Smith, delle corde della sua chitarra elettrica mentre Jackson Smith piega la bocca in un sorrisetto perplesso come a dire: “ma guarda te che sta combinando mia madre...” Tutti battono le mani in direzione di Patti Smith, ma io il mio ultimo applauso lo rivolgo invece a Lenny Kaye. Un uomo, un mito, e che Iddio ce lo preservi.
(P.S.: Posso aver dato l’idea di non essere un estimatore di Patti Smith come poetessa, ed è un’impressione, nel complesso, abbastanza corretta. La stimo immensamente, invece, come scrittrice di prosa: il suo memoir Just Kids – uscito in Italia nel 2010 per Feltrinelli - sul suo periodo di outsider a New York in compagnia dell’amico del cuore Robert Mapplethorpe (autore fra l’altro della foto di copertina di Horses) è straordinario, e consiglio a chiunque voglia farsi un’idea dell’ambiente artistico – e non solo – di New York nei primi anni Settanta di leggerlo. A breve, peraltro, ne sarà anche tratto un film, che al momento è in fase di pre-produzione).
SETLIST:
Gloria Redondo Beach Birdland Free Money Kimberly Break It Up Land / Gloria Elegie
Dancing Barefoot April Fool Beneath The Southern Cross Costantine's Dream Because The Night Banga People Have The Power Rock And Roll Nigger
Articolo del
19/04/2013 -
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