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Certo aggirarsi per le strade di Duluth deve essere un po’ come vagabondare nella Atlanta di “The Walking Dead”, ovvio senza nessuno che tenta di mangiarti, ma anche senza poter rivolgere la parola a nessuno, o per lo meno così si direbbe a vedere il carattere schivo e riservato di alcuni dei suoi più noti cittadini, come ad esempio i Low (per non parlare di altre generazioni di songwriter) che si presentano sul palco del Barbican con la loro tradizionale formazione a tre le cui particolarità sono Mimi Parker alla voce e alla batteria, Steve Garrington alle tastiere e al basso e Alan Sparhawk a dirigere al terzetto. Per la prima ora di concerto, durante la quale sfila quasi tutto il loro ultimo disco, ”The Invisible Way”, il pubblico del Barbican è attento, trattiene il respiro, segue ogni singola nota e si lascia cullare dalla triste malinconia di brani come Plastic Cup, Amethyst e Waiting, ma a un certo punto, da qualche parte tra Just Make it Stop e alcune delle pietre miliari della loro ventennale carriera, il delicato equilibrio si rompe, il via vai di persone verso il bar come anche i bicchieri di birra vuoti sotto le poltroncine, aumenta e diventa difficile seguire il discorso intavolato sul palco.
Certo non mancano applausi scroscianti alla fine di ogni pezzo, ma non c’è più quel legame speciale, quella condivisione, quella silenziosa attesa. Non è una questione musicale, o per lo meno non è solo una questione musicale, ma un problema di presenza sul palco: la seconda metà della serata vede molte canzoni in cui la Parker regna sovrana, ma la batterista si esibisce con un freddo distacco, niente immedesimazione, si percepisce quasi una punta di noia nell’esecuzione, nonostante la sua voce sia forte, sicura e precisa. Però, fatto sta che è proprio lei la nota stonata che incrina gli ultimi sessanta minuti di concerto, mentre Sparhawk si lancia in assoli distorti e Garrington si alterna con gesti plateali tra i suoi due strumenti Mimi resta impassibile. Purtroppo non percepire nel modo giusto un musicista sul palco è un’idea che s’insinua piano piano nella tua mente, fino a non farti più godere della musica ma solo a pensare a quell’unica pecca.
Oltre a questo il set ha un altro problema, più di due ore di concerto sono molte, e nel caso dei Low si finisce per cadere in una sorta di loop, in una latente ripetitività; le canzoni si mescolano, si sovrappongono e si confondono - per lo meno così è successo a me - niente mantiene viva l’attenzione o attira una sana curiosità, ogni pezzo suona esattamente come sul disco, niente di più niente di meno. E allora, sorge il dubbio su quale sia il valore aggiunto di un concerto, se non la prossimità con l’artista stesso, ma se questi alzano un muro con il pubblico non resta niente, se non ottima musica che però si può ascoltare comodamente a casa propria con un buon impianto, magari su vinile.
(La foto dei Low è di Francesca Ferrari)
Articolo del
05/05/2013 -
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