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Ci sono delle volte in cui vorresti - e lo vorresti veramente di cuore - riuscire a descrivere qualcosa, a spiegarlo a una persona cara nei minimi particolari, riuscire a rendere l’idea dell’atmosfera, dell’energia, delle sensazioni, e invece le parole si accavallano, frenano e sbandano distrattamente in direzioni impreviste o restano sospese a mezz’aria semplicemente inadatte allo scopo. Questo è il sottile funambolismo in cui ci si trova involontariamente coinvolti cercando di recensire qualsiasi cosa, non ci sono dati oggettivi e tutto può svanire in una folata di vento: sarebbe molto meglio dire semplicemente “ah, dovevi esserci!”. E raccontare una serata con Sam Beam è qualcosa di arduo, specialmente raccontare quella sensazione che si prova a metà strada tra il petto e lo stomaco e che continua a risuonare anche dopo dando un senso di calma quiete.
Iron And Wine è uno di quei personaggi che catturano subito il pubblico, sarà la barba, sarà la semplicità o la simpatia. Attorno a lui sul palco un bel po’ di gente tra archi, fiati, sezione ritmica e coriste, ma non c’è nulla da fare, è sempre e solo lui, tant’è che dopo i primi tre o quattro pezzi – tra cui figurano Carousel and Such Great High - con la sua band il palco si svuota e restano solo un barbuto chitarrista originario del South Georgia con la sua chitarra acustica, e d’un tratto l’atmosfera cambia, inizia un botta e risposta con il pubblico non metaforico, ma reale e punteggiato di battute e fragorosi scoppi di risa da entrambe le parti. Tutte le canzoni richieste a gran voce dal pubblico risalgono a qualche anno fa, niente richieste da Kiss Each Other Clean o Ghost On Ghost, l’album più gettonato resta The Shepherd’s Dog (il capolavoro assoluto e ineguagliato di Beam!), ma il pubblico è semplicemente felice di avere il folksinger di fronte e l’ampio teatro del Barbican Center si fa intimo e allegro come una serata al pub con gli amici più cari (e le birre a dire il vero non mancano).
La parentesi acustica dura il tempo di quattro canzoni poi dall’oscurità delle quinte riemergono ordinatamente i musicisti, e ha inizio la seconda parte della serata, tutta dedicata all’ultimo disco appena uscito, Ghost On Ghost. Pur essendo l’album ben lontano dalle rarefatte atmosfere folkeggianti di qualche album fa, e probabilmente sonoramente un po’ troppo carico, le canzoni e gli scrosci di applausi si alternano con quel tacito accordo che si instaura per contratto non detto tra pubblico e artista, tutti sono superflui sul placo tranne Beam, ma danno colore alla cornice. Quando Dylan ebbe la sua svolta elettrica nel 1965 i fans accettavano di buon grado i nuovi pezzi come prezzo da pagare per poter ascoltare i vecchi, e, con le dovute distanze, per Sam Beam è la stessa cosa; nessuno è veramente lì per sentire Lover’s Revolution o Grace For Saints And Ramblers, ma tutti trattengono il fiato quando iniziano le note di Boy With A Coin o Resurrection Fern, o quando Beam torna da solo per il suo regalo d’addio:Sodom South Georgia.
Questa è quella sensazione di calore che continua a vibrare da qualche parte, un’eco flebile che non si vuole spegnere e che spinge a parlare e ripercorre e a rivivere la serata sperando di raggiungere di nuovo quella perfezione assoluta.
Articolo del
31/05/2013 -
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