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Prefazione di Maria Grazia Umbro
Si può essere ancora grandi professionisti, esigenti e premurosi di dare il massimo nel proprio show dopo oltre 40 anni di concerti, quando ormai dovrebbe essere tutto a memoria, tutto facile, tutto già perfezionato? Ebbene sì. Per Glenn Hughes è così. Siamo al Crossroads appena fuori Roma, giovedi 30 maggio. Glenn Hughes in tour in Italia con Matt Filippini & Band, arriva al soundcheck in ritardo ma molto serio e concentrato, e da subito pretende il massimo nel suono, bacchetta un po’ i fonici e costringe la band a decine di interruzioni, finché non riesce ad ottenere ciò che vuole: la perfezione. A pochi metri dal palco, prima che lui chieda di far allontanare tutti, il suo manager Drew Thompson e Giampiero, un amico che viaggia con lui, mi confermano che nonostante la lunga esperienza sul palco, non riesce a non prendere sul serio ogni soundcheck e ogni concerto. Siamo già in ritardo sulla tabella di marcia, dopo c’è l’intervista e poi la corsa in hotel per cambiarsi. Al ritorno, tutto è pronto, la sala gremita, i fotografi in posizione, ma lui ancora non sale sul palco. Mi arriva una voce dai camerini, c’è stato un piccolo problema tecnico: il gancio della cinta del basso si è staccato e stanno provando a ripararlo con mezzi di fortuna... E ci riescono perché dopo un po’, acclamato dal pubblico, appare e inizia lo show. Lui è davvero in forma, e lo dimostra la sua voce che ancora fa venire i brividi. In un paio d’ore riesce a catapultare tutti nel passato, il suo passato, con canzoni scritte con i Deep Purple della Mark III, e addirittura qualcosa dei Trapeze, band con cui esordì negli anni ’60. E non dimentica nemmeno gli amici, come il tributo a Stevie Wonder con la fortissima Superstition, ma anche quelli che non ci sono più, Mel Gally, Tommy Bolin e Jon Lord, e che lui ricorda con affetto. Lancia anche un messaggio: lui dice di essere felice di essere ancora “qui” con noi, di avercela fatta perché ha voluto risollevarsi dal baratro, e che è dispiaciuto che i suoi amici invece non ce l’abbiano fatta. E aggiunge che il miglior modo per celebrare il suo essere vivo è stare sul palco e dare tutto ai suoi fan, perché bisogna saper dare per poter ricevere. Un messaggio che ripete spesso e il pubblico sembra apprezzare perché non hanno smesso di cantare e saltare per tutto il tempo. E’ stato molto bello vedere quanta generosità nel dare al pubblico una performance altissima, ma soprattutto questo suo attaccamento alla vita e alla musica che ci ha reso tutti così entusiasti di essere li.
Live Report di Giuseppe Celano
61 candeline il 21 agosto quest’anno, fondatore dei seminali Trapeze, a soli 23 anni bassista ufficiale di quella che, a suo dire, nel 1973 era l’hard rock band più famosa del pianeta. Un numero imponente di collaborazioni con mostri sacri e numero incalcolabile di stravizi e grammi di cocaina che lo hanno letteralmente trascinato in un inferno psicofisico (allucinazioni auditive, paranoia e infarto) e minato anche le qualità artistiche. Sul palco Glenn Hughes si trasforma nel (vecchio) leone di sempre mostrando una forma fisica davvero invidiabile, manualità e tecnica senza pecche e una voce non intaccata dagli abusi e immune al logoro del tempo.
La sua ugola passa con una facilità imbarazzante attraverso 4 tonalità con tanto di cambi di registro, impostazione e interpretazione dei brani arrangiati in maniera eccelsa, mai fini a se stessi. Se si volesse muovere un appunto a questo dinosauro scampato all’estinzione si potrebbe facilmente criticare i suoi continui falsetti sulla lunga distanza tendono a irritare perché prevedibili tanto quanto inutili. Inutili i presenti sono ben consci della sua estensione e irritanti non per il suono in sè ma perché Hughes non deve dimostrare niente a nessuno. Il suo controllo vocale ha dell’incredibile, le vette che riesce a sfidare sono davvero disumane.
E allora perchè Glenn deve sempre strafare, anche quando non è necessario? Semplice, era così quarant’anni fa (prima ancora di iniziare a farsi) era così dopo e anche oggi non è mutato di una virgola. E’ un uomo iperattivo, istrionico e pavone, non interpreta un personaggio ma è IL personaggio stesso. Tony Iommi nella sua autobiografia dichiara che una volta durante le sessioni di Seventh Star gli aveva offerto un caffè e per una giornata intera non si era riusciti a lavorare per l’iperattività scatenata dalla “sola” caffeina. Nella sua autobiografia, appena uscita e consigliata, Glenn conferma di essere affetto da questa forma di iperattività che da sempre lo costringe a fare mille cose. Un vulcano d’idee mai pago, dal vivo non riesce a star fermo, è lo spirito del funk a spingerlo verso la mutazione continua.
Il suono mostruoso del Rickenbaker, che passa quasi in secondo piano rispetto alla sua prova canora, riempie l’intera sala appena il nostro fa capolino sul palco. Eliminati i primi minuti durante cui qualche problema d’acustica legata alla spia troppo bassa, la serata decolla sui classici dei Deep Purple. Si parte con il poderoso attacco sonico di Stormbringer, da piloerezione, costruito sui portentosi riff del mai troppo elogiato Ritchie Blackmore passando per la successiva Might Just Take Your Life, da Burn, in cui il singer mette subito le cose in chiaro. Stasera si celebrerà il Classic Rock, il Vintage Rock d’eccellenza tralasciando le ultime leccate produzioni della sua carriera solista o le collaborazioni con i Black Country Communion. Poi arrivano Sail Away e Black Cloud che tengono in caldo il pubblico nell’attesa di Mistreated, straordinario blues scritto dalla penna(ta) inconfondibile di Ritchie. La chitarra elettrica, troppo alta, introduce l’ormai mitico pièce de résistance su cui Hughes applica tutti i “trucchi” di repertorio aggredendo il brano sin dall’inizio. La sua estensione, la timbrica pulita ma sempre sofferente e l’interpretazione fuori dal comune confermano che siamo di fronte a uno dei pochi animali da palcoscenico sopravvissuti agli anni ’70.
Che Glenn sia un bassista micidiale lo sanno tutti, che la sua voce sia impavida come un free climber su una parete apparentemente impossibile è storia, quello che non tutti sanno è che il meglio di questo formidabile singer emerge quando lascia esplodere la sua parte più intima attraverso armonizzazioni vocali che tradiscono il fianco scoperto mostrando l’anima funk/soul da cui proviene. La coda finale di Mistreated e la rinvigorita Superstition, del mentore e amico Stevie Wonder, sono la summa di quanto appena detto. Non mancano la muscolare Gettin’ Tighter e la commovente You Keep On Moving, altro terreno fertile per i saliscendi armonici e i vocalizzi da cardiopalmo.
Passano pochissimi minuti dopo il suo momentaneo allontanamento dal palco e si riparte sulle note di Soul Mover seguita dall’ingombrante capolavoro Burn che chiude questa toccante esibizione. L’attacco vocale fa letteralmente saltare dalla sedia ricordando che i miracoli a volte succedono ma non hanno niente a che fare con la religione ma sono un atto di fede assoluta in ciò che si fa. Ride the rainbow, crack the sky, stormbringer coming...
SETLIST:
Stormbringer Might Just Take Your Life Sail Away Black Cloud Mistreated Superstition Seafull Gettin' Tighter You Keep On Moving
Encore Soul Mover Burn
(La foto di Glenn Hughes al Crossroads è di Maria Grazia Umbro)
Articolo del
03/06/2013 -
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