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E’ stata un’esperienza assoluta. Senza troppi preamboli sul tempo, la gente e le ovvietà quotidiane... Un concerto dei Dead Skeletons è qualcosa di totale, che può essere raccontato e recepito con più o meno efficacia, a seconda di quanto narratori ed interlocutori siano predisposti al tipo di situazione o semplicemente subordinatamente a quanta (e quale) droga abbiano assunto.
Prima di addentrarci nel misticismo artistico della band islandese è doveroso spendere più di una semplice parola anche per i Sonic Jesus. Provengono da Doganella di Ninfa, vicino Latina; ad una prima occhiata, appena saliti sul palco, rischierebbero di essere spacciati per comunissimi hipster dalla maglia stretta, skinny e barbetta... poi calano le luci e l’ambiente circostante viene presto invaso da una coltre di fumo dal quale fuoriescono tuoni, riverberi ed un muro di suono sul quale coesistono schizzi di shoegaze, surf rock e quant’altro, il tutto asservito alla preponderante vocazione psichedelica. Non il solito gruppo spalla, anzi, un vero valore aggiunto alla serata, anche se i più attenti sanno che questa è tutt’altro che una coincidenza. Sonic Jesus e Dead Skeletons infatti vanno a braccetto da un po’ e non a caso figurano entrambi tra gli artisti facenti parte della compilation The Reverb Conspiracy Vol.1, prodotta dagli organizzatori dell’Austin Psych Fest e da Fuzz Club Records, che raccoglie il meglio della produzione di tutte le nuove leve della scena neo-psichedelica europea. Dopo una stragodibile apertura con i brani tratti dall’omonimo EP di esordio, i Sonic Jesus lasciano il palco tra gli applausi del pubblico non foltissimo, ma numeroso e ben distribuito, accorso alla spicciolata ad esibizione iniziata.
Terminata la performance di fumo (artificiale) e tanto arrosto dei Sonic Jesus, senza troppi divismi i membri dei Dead Skeletons salgono sul palco per posizionare i loro strumenti ed accordarsi, suscita da subito curiosità anche una tela bianca, appoggiata al cavalletto che si trova al centro del palco, sopra del quale non c’è una tastiera bensì una misteriosa valigetta, posizionata lì da Jón Sæmundur Auðarson (a seguire JSA, ndr), in “arte” (è davvero il caso di dirlo) Nonni Dead. JSA apre la valigetta e, sulla parte esterna rivolta verso il pubblico, c’è uno schermo che proietta delle immagini che richiamano costantemente teschi e morte, oltre che il logo dei Dead Skeletons (ovviamente un teschio), contornato da una scritta che compare sullo schermo in tutte le lingue e che recita “Chi teme la morte non può godere la vita”. Già, perché in realtà l’apparenza cupa e estremamente macabra di questa band è puramente superficiale, o meglio, il “mantra” (anche in questo caso il termine è tutt’altro che usato a sproposito) della band è rappresentato proprio da questo, la gioia di vivere attraverso l’accettazione e la rilettura del concetto stesso di morte. Tutto questo è incarnato nella persona e nell’essenza di JSA, nato nel 1968 a Reykjavík, che dopo aver studiato all'Icelandic College of Arts & Crafts si è poi diplomato alla Glasgow School of Art nel 2001. Le sue opere sono appunto basate su istallazioni che fondono insieme pittura, scultura, video e musica. La vita e la morte sono i punti centrali delle tematiche affrontate da JSA, in particolar modo da quando è stato diagnosticato positivo all’HIV nel 1994. L’essere forzato a confrontarsi fino a dominare la sua paura della morte lo hanno portato ad essere conosciuto soprattutto per le sue opere concettualizzate proprio attorno a questo tema. La morte si concentra sulla vita, un paradosso inteso per scioccare i pensieri della gente, come un virus benigno. E’ necessario conoscere tutto questo per poter carpire al meglio l’essenza di tutto quello a cui si assiste durante uno spettacolo dei Dead Skeletons, affinché non passi per una pura ostentazione di eccentricità come un qualsiasi freak con il vezzo dello “strano per essere strano”.
Dopo un’intro prolungata ecco finalmente che i Dead Skeletons prendono possesso del palco del Circolo degli Artisti, mai come oggi teatro di un così intenso concentrato di arte assoluta. JSA accende delle stecche di incenso che posiziona ai due angoli della sua valigetta con dentro l’occorrente per dipingere e mentre la band inizia con Om Mani Peme Hung, JSA inizia a disegnare sulla tela tratti di colore nero che dopo un esiguo numero di pennellate presto iniziano ad assumere le fattezze di un teschio. Dopo aver concluso il dipinto JSA ci getta sopra dell’acqua, i cui schizzi creano un effetto sfumato e rendono l’opera ancora più inquietante. Oltre a JSA, che per forza di cose catalizza su di se tutta l’attenzione del pubblico, la band si presenta compatta e concentrata, suonano a memoria ed il sound è reso perfettamente. Un altro esempio, se così lo vogliamo intendere o perlomeno è come l’ho inteso io, dell’autenticità di questo gruppo sta in come si presentano gli altri componenti. Eccezion fatta per JSA, che a guardarlo sembra un incrocio tra Iggy Pop ed uno sciamano, il resto della band ha un look decisamente eterogeneo e per nulla forzato, anzi, l’altra mente del gruppo, il chitarrista e cantante Henrik Björnsson si presenta con chiodo, occhiali da sole scuri e capelli biondi sparati in aria alla Billy Idol, che insieme al riverbero ed al suo stile canoro molto dark dà l’idea di essere uno cresciuto a pane, latte (Più) e The Cramps. Al contrario il tastierista ed all’occorrenza percussionista, Ryan Carlson Van Kriedt, ha un outfit più intellettuale, diciamo “alla Ray Manzarek”, per fare un accostamento che sicuramente gradirà. Al contrario di quello che si potrebbe pensare preventivamente da una band proveniente dalla freddissima Islanda, che fa psichedelia e che ha incentrato immagine e testi su teschi e morte, l’offerta musicale è tutt’altro che pesante ed opprimente. La scaletta, che propone in gran parte i brani tratti dall’album Dead Magick, più alcuni estratti da altri EP, è molto movimentata, non mancano i pezzi caratterizzati da un ritmo tendente addirittura al surf rock (come era anche per i Sonic Jesus) e, una volta che l’atmosfera si è scaldata, non sono in pochi a darsi alle danze nel pubblico.
Tirando le somme la resa musicale complessiva dei Dead Skeletons è come un infuso di essenze, o meglio di forze, chiamate a raccolta da varie parti del mondo, dall’oscurità delle fredde terre di provenienza, mista al calore della psichedelica californiana, per poi arrivare alla sacralità dei canti dei monaci tibetani, da cui JSA riprende lo stile canoro elevando il tutto in una forma solenne ai limiti dell’ultraterreno, o dell’esperienza mistica. Finalmente ho coronato il sogno di una vita fatta di rimpianti per non essere vissuto negli anni 60, assistere ad un concerto psichedelico in cui, non solo quasi ogni senso veniva appagato: vista (con i video e la pittura), olfatto (grazie all’incenso, misto alla marijuana proveniente dalla parte più romantica del pubblico) e naturalmente l’udito; ma vivere un concerto in cui intorno a me c’era gente che ondeggiava e ballava con gli occhi chiusi e sognanti o spalancati ed ipnotizzati, come accadeva nelle esibizioni dei Grateful Dead. Grazie, di cuore.
SETLIST:
Om Mani Peme Hung Buddha Christ Kundalini Eyes Psycho Dead When The Sun Comes Up Odaudleg Ord Get A Train Kingdom Of God Om Vadra Lifðu
Encore Dead Mantra
Articolo del
04/06/2013 -
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