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“Eravamo i classici quattro gatti, venerdì scorso allo Zoobar, ad assistere alla prima romana dei National, una delle più promettenti band di questi primi mesi del 2005”. Era questo l’incipit della mia recensione dell’ultimo concerto romano dei National, risalente nientemeno che a otto anni fa. Lo sto citando, perché gli stessi National nel bel mezzo della serata dell’Auditorium, a un certo punto hanno rievocato quella loro finora unica esibizione all’ombra del Colosseo, menzionando come a quel buco che era lo Zoobar ci fossero, al massimo, una trentina di spettatori (in realtà non è così: saremo stati una cinquantina, ma comunque lo stesso pochi gatti). Il punto è che stasera è davvero tutta un’altra storia, e la Cavea dell’Auditorium è sold out da settimane, a segnare come il quintetto di trapiantati a Brooklyn dall’Ohio da allora ne abbia fatta, e tanta, di strada. Allo Zoobar era l’epoca di Alligator, il disco che fece loro ottenere le prime recensioni sui giornali che contano (anzi, che contavano). Ma poi ci sono stati due album di alto livello come Boxer (2007) e High Violet (2010) che man mano hanno reso i National sempre più amati e celebrati, fino ad arrivare ai giorni odierni e al recentissimo - ottimo - Trouble Will Find Me.
Oggi i National si trovano nella stessa posizione occupata dai R.E.M. negli anni Novanta. I punti in comune sono tanti: in primis, la gavetta e il duro lavoro, che anche nel caso dei National – anche a giudicare da stasera – hanno pagato, eccome. Il pubblico, poi, è praticamente lo stesso: mediamente colto, universitario, sensibile, tendenzialmente liberal e obamiano senza troppi rivoluzionari grilli (o Grillo?) per la testa. E anche piuttosto benestante, almeno a giudicare dalla quantità di fans che all’uscita pagano senza battere ciglio 25 (venticinque!) euro per la maglietta “ufficiale” del gruppo. Come i R.E.M. neanche i National sono animali da palcoscenico, ma persone normali come me e come voi, fatta eccezione per i bagni di folla che il tuttora stralunato vocalist Matt Berninger si (e ci) riserva un paio di volte durante lo show. Basano tutto, i National, sullo strano potere ipnotico delle loro canzoni, e fanno bene, perché fra l'altro stasera realizziamo appieno quanto siano belle.
Quando prendono posto sul palco con una ventina di minuti di ritardo sul programma, è subito chiaro che rispetto ai tempi dello Zoobar molto è cambiato. In meglio, soprattutto. Anche perché ora i National da cinque che erano si propongono - perlomeno dal vivo - in sette: dietro a Berninger, ai gemelli (identici e indistinguibili) Dessner e ai fratelli Devendorf agiscono il trombettista Kyle Resnick e il trombonista Benjamin Lanz che conferiscono ulteriore vigore al sound. E si tratta di due innesti necessari e sacrosanti, in special modo considerando i prestigiosi contesti che la band si sta trovando a frequentare da un po’ di tempo a questa parte (raffinati teatri, arene all’aperto e grandi festival estivi). Squalor Victoria, da Boxer, è il brano con cui si aprono le danze di fronte a un pubblico che fin dalle prime note riserva loro un trattamento da grandi star, a giudicare dai boati di apprezzamento che si levano da tutta la Cavea e dai regali che Matt Berninger riceve dalle prime file, neanche fosse Robbie Williams (tra questi, anche un paio di mutande... extra-size!). Larga parte dello show di stasera è dedicato a presentare il disco nuovo di zecca, quel Trouble Will Find Me che – ne abbiamo la conferma stasera – è una delle uscite migliori dell’anno. I Should Live In Salt e Don't Swallow The Cap sono un magnifico uno-due, il segnale che l’atmosfera inizia a farsi intensa. Il pubblico è ancora seduto ordinatamente nelle sue seggioline numerate, ma è chiaro che non potrà durare a lungo. Berninger e Bryce Dessner lo provocano fin dall’inizio, ma la security per un po’ riesce a reggere botta. Bastano però due singoloni come Bloodbuzz Ohio e Mistaken For Strangers per far scatenare il finimondo, tutti in piedi a dimenarsi mentre Berninger fa il primo dei suoi tuffi in mezzo alla folla, sua cifra caratteristica e unici momenti di trasgressione di un quarantenne, per il resto, tranquillo e sensibile. Nei National, il centro dell’attenzione continua a essere lui (fatta eccezione per il gemello Bryce che di tanto in tanto si concede alcune pose da axe-hero alla The Edge) anche se per la verità rispetto allo Zoobar sembra aver messo su un po’ di pancetta, si è stempiato e ora ha gli occhiali da vista perennemente inforcati sul naso. Conta poco, però, quando sappiamo che i testi delle canzoni dei National sono tutti suoi, e sono tutti estremamente veri e sentiti; come quando ci racconta dei suoi Demons nel brano omonimo, o quando chiede scusa alla sua (ex) amata Jo in Sea Of Love, uno dei brani-chiave di Trouble Will Find Me (e la canzone che contiene la strofa “What did Harvard teach you?”, a confermare che, sì, i National sono proprio una band per universitari). Rispetto a otto anni fa non ci sono tempi morti, e strumentalmente la crescita è stata esponenziale: Berninger & Co. sono diventati una macchina da guerra, capace di alternare a piacimento il pulsante della morbosa malinconia e quello della rabbiosa disperazione. Prima erano grezzi, spontanei e caotici; oggi non più, e quello dell’Auditorium – lo si può dire – è uno show pressoché perfetto. Una questione anche di repertorio, perché otto anni fa Pink Rabbits e Sorrow non le avevano ancora composte. E nemmeno Fake Empire, forse il loro brano universalmente più conosciuto, che chiude in gloria la prima parte del concerto.
Il ritorno per i bis è un fatto scontato. Ancora due episodi – intensissimi – tratti da Trouble Will Find Me (Heavenfaced e Humiliation). Il clou della serata è però, personalmente, il momento in cui viene eseguita la “vecchia” Mr. November (da Alligator), quando come ai (bei) vecchi tempi Matt Berninger si getta in mezzo al pubblico. Se non ricordo male, quando lo fece allo Zoobar non se lo filò praticamente nessuno, e, anzi, alcuni lo guardarono con la commiserazione che si riserva a un performer eccentrico che ha bevuto troppi bicchieri di vino. Alla Cavea invece è un trionfo, Matt riceve abbracci e pacche sulle spalle, e il pubblico in platea fa a gara per afferrare il microfono e poter cantare, in sua vece, il refrain “I won’t fuck us over – I’m Mr. November!” Poi, dopo Terrible Love, tutti e sette i musicisti si spostano verso il bordo del palco e come fossero in un piccolo club (tipo lo Zoobar) iniziano a suonare in acustico Vanderlyle Crybaby Geeks (il brano che chiude High Violet), chiedendo di cantarla al pubblico che non si fa pregare, e la Cavea si trasforma in un gigantesco karaoke: “Vanderlyle, cry baby, cry… I’ll explain everything to the geeks...”
“E’ probabile che i National non facciano mai il botto che hanno fatto i concittadini Interpol: le loro canzoni possiedono troppe sfumature, troppe raffinate idee melodiche inserite qua e là, e liriche poeticamente complesse che l’ascoltatore medio può avere problemi a decrittare.” Lo scrissi otto anni fa, e mai profezia fu più sballata di questa. Quelli che non hanno risposto alle attese, infatti, sono stati proprio gli Interpol, autori di una sfilza di album sempre più deludenti. Così, con la dipartita dei R.E.M. e un Morrissey ai box in sosta forzata, i National oggi si trovano la strada praticamente spianata. Sono (incredibile dictu, nell’ottica del 2005) una band di successo: sudato, comunque, e - al cento per cento - as-so-lu-ta-men-te meritato.
SETLIST:
Squalor Victoria I Should Live In Salt Don't Swallow the Cap Bloodbuzz Ohio Mistaken for Strangers Demons Sea of Love Afraid of Everyone Conversation 16 I Need My Girl This is the Last Time Baby, We'll Be Fine Abel Slow Show Pink Rabbits Sorrow Graceless About Today Fake Empire
Encore: Heavenfaced Humiliation Mr. November Terrible Love Vanderlyle Crybaby Geeks
Articolo del
04/07/2013 -
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