Il concerto
Chissà se Matthew Bellamy conosce Cecco Angiolieri... Sabato 6 luglio infatti sembra che in qualche modo il meteo romano e la scenografia dei Muse gli abbiano reso tributo, parafrasando la sua opera più famosa. S'i fosse fuoco, arderei 'l mondo; non è un mistero infatti che le ciminiere sputa-fuoco fossero uno dei tratti peculiari del “carrozzone” scenografico del The Unsustainable Tour che, a detta dello stesso Bellamy, pare si sia rivelato davvero insostenibile o quasi per i suoi costi. Dopo una breve intro è subito tempo di “Foco Fino Ar Cielo” (come scritto su uno striscione) a tempo con le battute del riff di Supremacy, brano di apertura fisso di tutto il tour. S'i fosse acqua, i' l'annegherei; come del resto è successo nel pomeriggio, quando dal caldo afoso si è passati ad un improvviso acquazzone che ha fatto temere il peggio per la perfetta riuscita dello show. Quasi quasi è un peccato che questa copiosa innaffiata non sia avvenuta durante uno dei singoloni del nuovo album The 2nd Law, un po’ a mo' di sveglia divina per la band. Soprattutto però come castigo per tutta quell’orda di elementi che ormai infesta ogni tipo di rappresentazione musicale e che non riesce a fare a meno di effettuare costantemente video e foto con il cellulare per “far vedere che loro lì c’erano”. E meno male che prima del concerto fosse stata roboantemente annunciata la registrazione dello show per il nuovo dvd ufficiale dei Muse.
S'i fosse papa, allor serei giocondo; sulla spassosa accozzaglia funky di plagi e rivisitazioni (dai Queen con Another One Bites The Dust a Superstition di Stevie Wonder) che risponde al nome di Panic Station. Tutti quelli che avevano visto video o letto articoli sulle precedenti date si immaginavano una seconda comparsata del cartone animato di Silvio Berlusconi (come a Torino) che, insieme agli altri potenti della Terra (Barack Obama e David Cameron tra gli altri), ballava sulle note di questo brano, invece a sorpresa compare un giocondissimo Papa Francesco, tuttavia nulla di particolarmente provocatorio.
L’esecuzione delle canzoni è pressoché perfetta, come al solito del resto, nonostante il dispendio di energie causato dalle corse in lungo e largo sulle varie pedane del palco non sia indifferente, non solo da parte di Matthew Bellamy, ma anche di un Chris Wolstenholme in “forma campionato”. Gran parte delle trovate scenografiche e dei colpi ad effetto dello show sono ispirati da un messaggio politico di netta denuncia contro i fautori della crisi mondiale, sia economica che ambientale, come lo spietato uomo d’affari protagonista di Animals. L’uomo sul finale della canzone lancia banconote (pezzi da 20 “Muso” che servono a sbloccare materiale esclusivo dal sito della band) prima di cadere come morto, durante il riff finale, all’estremità della pedana che arriva fino a metà parterre. Questo “Stage-B”, al centro dello stadio, è teatro anche della coreografia ai limiti del soft porn di Feeling Good, in cui un’avvenente broker “amoreggia” con una pompa di benzina fino a perdere il controllo e bere dal bocchettone stesso, mentre il prezzo del carburante lievita.
In definitiva è tutto volutamente molto “pop”, nel bene e nel male, fattore critico che nella fattispecie colpisce il settore delle “chicche in scaletta”, pressoché inesistenti ad eccezione di qualche riff tipico del repertorio live dei Muse. Spunti inflazionati ma che fa sempre piacere ascoltare, come l’omaggio ai Lightning Bolt (Dracula’s Mountain prima di Explorers) e ai Rage Against The Machine (Freedom come outro di Stockholm Syndrome), passando per l’ormai classica Man With A Harmonica del Maestro Ennio Morricone, ad introdurre Knights Of Cydonia. Una delusione totale per chi sperava in pezzi (presenti in altre scalette di questo tour) come Bliss, Dead Star, Butterflies & Hurricanes o Citizen Erased, quest’ultima caldeggiata particolarmente anche con un grande striscione sugli spalti riportante la scritta “Don’t Erase Citizen”.
La parte “soft” del concerto regala finalmente ai fan assiepati attorno allo Stage-B anche Dominic Howard, le più entusiaste sono sicuramente le ragazze, una infatti gli lancia anche il reggiseno che “Dom-Giovanni” sistema compiaciuto su un fusto della sua batteria elettronica. La band esegue la sequenza più “cheesy” (definizione usata anche dallo stesso Matthew Bellamy), ovvero più romantica e melensa (a seconda dei casi), con le magnifiche Unintended e Blackout, entrambe con Wolstenholme alla chitarra e Bellamy agli sguardi languidi. Tra questi due brani c’è Guiding Light, sulla quale i Muse ripropongono il loro ormai classico colpo di teatro da concerto negli stadi. Ecco infatti un’eliosfera (quest’anno a forma di lampadina) da cui si cala una ginnasta (che poi è sempre la porno broker di Feeling Good) che esegue sinuose evoluzioni volanti sospesa sopra alla platea del parterre. L’ultima della sezione “cheesy” è la dispensabile Undisclosed Desires, con Bellamy a stringere mani e fare il bagno di folla, come i bravi frontmen navigati, costeggiando le transenne che arginano i 60 mila dell’Olimpico.
La prima serie di encore parte con The 2nd Law: Unsustainable, il geniale brano dubstep suonato, unica vera perla dell’ultimo lavoro in studio del trio, che però dal vivo si avvale anche dell’ormai solito apporto di Morgan Nichols, indispensabile per brani come questo. La prima trance di bis si chiude con Supermassive Black Hole, ormai promossa a classico, quindi la superkitsch Survival. L’atto finale ha inizio con The 2nd Law: Isolated System, con il solo Nichols sul palco, raggiunto poco dopo da Dominic Howard a scandire il ritmo dell’ipnotico brano conclusivo dell’ultimo disco. E’ il preludio ad Uprising, il primo singolo dell’album The Resistance, seguita da riff, delirio ed anarchia sul palco, con Matt Bellamy che si scaglia contro uno dei suoi amplificatori, come a dire, quando ci va sappiamo ancora essere un gruppo rock, solo che non ci va...
Infatti i più sanno già come finirà, con Starlight cala il sipario sullo show e forse anche sull’attitudine rock dei Muse. Mai prima d’ora avevano chiuso un concerto con un pezzo così “leggerino”, sintomo della deriva pop / facilona che il trio inglese ha ormai intrapreso pur mantenendo un altissimo livello nelle performance. Uno stadio intero urla di gioia ed inneggia ad una band che poco più di 10 anni fa era un must da veri intenditori della scena alternative europea. Un traguardo senza dubbio formidabile, ma l’altra faccia della medaglia è rappresentata dal livello medio dei nuovi fan, oramai a dir poco infimo, come confermato dall’insensato coro di 7 Nation Army, che nella fattispecie si riduce ad un becero “po-po-po-po-po-po-po”, perché va da sé che chi fosse stato a conoscenza dell’esistenza dei White Stripes avrebbe trovato fuori luogo cantarlo.
Questo show e questo tour ci consegnano una band ormai consapevole di essere il nome più grosso della storia musicale pop/rock attuale. In lotta soltanto con se stessa per la leadership negli spettacoli live e che riesce incredibilmente a superarsi ogni volta, lasciando avvolta nel mistero qualsiasi ipotesi di svolta futura su un ulteriore rilancio in termini di fastosità o su un eventuale ridimensionamento…
A meno che dopo il concerto non incontri un Matthew Bellamy con diversi drink all’attivo ed in vena di fare una lunga chiacchierata con un fan di vecchia data...
La chiacchierata informale con Matthew Bellamy
Era mezzanotte passata quando ho sentito che il concerto era soltanto metà del tipo di esperienza che volevo vivere quella notte. Mosso quindi dal sacro fuoco che i bei tempi andati di questa band tengono ancora vivo in me, mi sono recato all’hotel nel quale alloggiavano i Muse. Ci sono volute diverse peripezie per centrare il risultato e sinceramente di come ci sia riuscito preferisco vantarmene con amici e conoscenti, la cosa più importante è che Matthew Bellamy, sì proprio lui, appena mi ha visto mi ha riconosciuto ed è venuto a salutarmi con l’ennesimo mojito in mano.
In un primo momento credevo che sarebbe stato tutto molto istituzionale, saluto, foto, autografo, ciao, grazie e alla prossima... invece no. Rispetto alle due volte precedenti in cui ci eravamo incontrati stavolta non c’era nessuna fretta, nessun aereo da prendere, anzi, abbiamo avuto tutta la calma del mondo e lui si è intrattenuto a chiacchierare di qualsiasi cosa per ben tre quarti d’ora abbondanti. Dapprima gli ho manifestato quanto mi facesse piacere, da romano, non solo che fossero tornati nella mia città, ma che avessero scelto proprio Roma per registrare il dvd. Così gli ho chiesto il perché di questa scelta. Roma è una città che hanno sempre considerato speciale a sua detta, inoltre era forte nella band il desiderio di rendere omaggio al pubblico italiano. Lo Stadio Olimpico poi, per la sua conformazione, era perfetto per il tipo di riprese che la band aveva in mente. L’Italia è da sempre nel cuore dei Muse, ben consci del calore che hanno sempre riscontrato qui da noi in molteplici forme, come ad esempio le tante tribute band tra le quali Matt ancora ricorda in particolare i Muscle Museum, che lui stesso insieme a Dominic Howard aveva incoronato “ufficiale” già svariati anni fa.
Non essendo un’intervista, bensì una vera e propria chiacchierata, in molti argomenti ci siamo entrati anche grazie a domande che lui ha fatto a me, a dimostrazione che, al contrario di quanto si possa supporre data la grandezza e l’importanza che i Muse hanno ormai assunto, i ragazzi hanno ancora i piedi per terra. Matt chiede a me ed al mio amico lì con me se il concerto ci è piaciuto e per mantenere la conversazione sui binari della sincerità posso fare a meno di dirgli che lo spettacolo era stato grandioso, ma che avevamo sperato in alcune scelte diverse riguardo alla scaletta. A quel punto piuttosto che lasciare che questa restasse una critica sterile, ho tratto spunto per porre una domanda più costruttiva, ovvero quale tipo di criterio adottassero per decidere le scalette. Matt mi ha spiegato che quando si fa un tour di stadi per forza di cose si deve cercare di andare incontro alla fascia di pubblico più ampia, specialmente registrando un dvd, volevano essere sicuri che la maggior parte del pubblico fosse partecipe sempre, seppur gli dispiacesse di aver accantonato pezzi come Dead Star e Bliss. Tra i pro della setlist però abbiamo manifestato tutto il nostro apprezzamento per il solito omaggio ai Rage Against The Machine. Il clima confidenziale e “compagnone” iniziava ad instaurarsi, tant’è che Matthew, dopo aver commentato che i Rage sono sempre la sua live band preferita, ci ha confessato che ogni volta che li vede suonare gli viene voglia di smettere! A quel punto decido di togliermi una curiosità che avevo da tempo, anzi in realtà si tratta di confermare un sospetto, chiedendogli quale tra le canzoni da lui composte fosse quella di cui era più fiero. La risposta mi ha piacevolmente non sorpreso, perché la risposta è stata Butterflies & Hurricanes, che secondo lui è il pezzo che in assoluto rende maggiormente l’essenza musicale dei Muse. A quel punto è lui a chiedermi quali siano i miei di pezzi preferiti; premesso che non ho una vera e propria classifica, bensì una serie di brani che considero tutti allo stesso livello per motivi diversi, ho risposto, con sua grande sorpresa, innanzitutto Megalomania seguita da Dead Star, quindi Fury e Citizen Erased. Megalomania lo ha oggettivamente spiazzato, mi ha detto che è una canzone un po’ tenebrosa e troppo particolare per essere suonata spesso e che quindi va preservata per le occasioni giuste, come quella volta alla Royal Albert Hall quando aveva avuto a disposizione un vero organo da chiesa.
In un secondo momento ho aggiunto che, tra le ultime, mi sentivo particolarmente legato a Follow Me per motivi personali, pur sapendo che era una canzone che lui aveva dedicato al figlio. A quel punto non so bene cosa sia successo, potrei azzardare che dopo avermi inizialmente inquadrato come fan “estremista della vecchia guardia” questa rivelazione su Follow Me deve averlo particolarmente toccato, ma in realtà non lo so, fatto sta che ha iniziato a raccontarmi della storia più oscura che si cela dietro a questa canzone. Che il primogenito di Matthew, Bingham Bellamy, abbia rischiato di non superare i suoi primi giorni di vita non è un segreto, sebbene sia stato detto in pochissime circostanze, ma che mi raccontasse determinati aneddoti, in particolare legati ai suoi stati d’animo in quei giorni di sofferenza proprio non me lo sarei mai aspettato... e non posso negare che sia stato commovente.
Viriamo di comune accordo su argomenti un po’ più leggeri, così continuo a togliermi curiosità che “per deformazione professionale” si trasformano in domande da reporter a caccia dello scoop. Infatti non avrei avuto mai un’occasione migliore per sapere quanto di attendibile ci fosse nella dichiarazione di Dominic di qualche tempo fa riguardante l’ipotesi di un tour di club per celebrare i 20 anni dei Muse (1994-2014). Matt mi ha detto che ci stanno pensando, anche se nulla è deciso, anche perché l’idea li affascina molto, ma ci sono da stabilire diversi dettagli tutt’altro che di poco conto. Innanzitutto il pubblico dovrà essere iper-selezionato, perché si parlerebbe di una manciata di date in club con una capienza da poche centinaia di persone attorno alla zona di Teignmouth. Oltretutto le scalette andrebbero a guardare anche molto indietro nel loro repertorio, fino alle primissime cose, motivo principale per cui la band vorrebbe essere sicura che i fortunati presenti potessero goderne davvero a pieno.
Personalmente il semplice fatto che i Muse oggi sentano questo tipo di esigenza, dopo la redditizia svolta mainstream che li ha fatti additare come “traditori” da una frangia di pubblico, mi ha lusingato. Per quanto lo stesso Matt mi abbia poi detto ridacchiando che comunque non sia così male suonare canzoni “cheesy” davanti a tante ragazze. A quel punto ho convenuto parzialmente con una battutaccia: “Beh sì… Meglio le ragazzine che una distesa di nerd e hipster come ai concerti dei Radiohead!” che ha fatto esplodere Matt in una di quelle sue tipiche risate contagiose che hanno tenuto alto il clima goliardico della conversazione.
A quel punto tutto era pronto per la domanda madre, ovvero se avessero già qualche idea per il nuovo album. Matt ha detto che le idee ci sono sempre, anche se poi magari quelle che vengono fuori durante i tour nella maggior parte dei casi finissero per essere stravolte. Fa l’esempio proprio di Follow Me, nata da un’allegra versione con la chitarra, ma che poi ha preso una direzione prettamente elettronica e cupa. Il desiderio dominante al momento sarebbe quello di tornare ad essere un trio vero e proprio, come ai primi tempi, mettendo da parte l’elettronica, non necessariamente facendo dei passi indietro a livello di sonorità o stile, ma dal punto di vista della composizione, fatta quindi in tre per essere riproposta e suonata nuovamente in trio. Sapendo che la vita personale, in particolare le sue relazioni sentimentali, hanno da sempre giocato un ruolo fondamentale nella sua ispirazione, chiedo a Matt se la sua fidanzata Kate Hudson è un’estimatrice della sua musica. Nel frattempo è doveroso specificare che durante la nostra chiacchierata Kate (anche lei con svariati drink di vantaggio) era tutta presa ad “esibirsi” ad una decina di metri di distanza da noi cantando pezzi tendenzialmente classic-rock (Led Zeppelin e Guns N’ Roses in particolare) che faceva suonare dal suo smart-phone. Matt ridacchiando disse che le piacciono diverse cose e che in particolare il suo pezzo preferito è Guiding Light, ma che fondamentalmente ha dei gusti molto più simili ai miei, perché in precedenza mentre parlavamo di musica in generale gli avevo detto che ero un estimatore del periodo tra fine anni 60 e primi 70.
A quel punto non ho potuto astenermi dal confessargli che quando appresi del loro fidanzamento quella notizia mi avesse piacevolmente sconvolto. Matthew Bellamy, l’eroe della mia adolescenza, che si fidanza proprio con Kate Hudson, la protagonista di Almost Famous, uno dei film preferiti non solo mio, ma di qualsiasi aspirante giornalista musicale... Ed era pazzesco che in quel momento fossi lì a vivere questo magico ibrido tra intervista e chiacchierata come se fossimo vecchi amici, proprio come nel film, mentre lei cantava a pochi metri da noi.
Sognare non costa nulla e chissà, magari la prossima volta ci ritroveremo con lui convinto a tuffarsi in una piscina saltando da un tetto mentre mi urla: “E tu… puoi dire alla rivista Rolling Stone che le mie ultime parole sono state…” @MrNickMatt (twitter)
Articolo del
08/07/2013 -
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