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C'è una Sala Santa Cecilia troppo grande, stasera. Galleria praticamente deserta e molti vuoti anche in platea. La crisi, direte voi. E certo che 35 e 25 euro sono tanti. Al contempo non sappiamo quanto sia stata promossa questa “sperimentazione” The Kilowatt Hour. Ci sono nomi importanti del panorama musicale degli ultimi trent'anni, in ballo, in realtà. David Sylvian, ex-Japan e soprattutto autore di LP (come si chiamavano una volta) capolavori, a partire da Brilliant Trees (1984). Lo sperimentatore elettronico Christian Fennesz, tra laptop e chitarra, con alle spalle splendide prove come Endless Summer (2001). Quindi il rumorista sperimentatore Stephan Mathieu, frequentatore berlinese di oscuri anfratti sonori e autore con Sylvian di Wandermüde (2013).
La performance inizia con impressionante puntualità: neanche il quarto d'ora accademico. Sala praticamente al buio e i tre che si posizionano sul palco, dietro tavoli, dinanzi a tre schermi: Stephan Mathieu è a sinistra, con cuffie, laptop, onde radio e sonore, quindi un miscuglio di rumori elettronici da centellinare; Christian Fennesz al centro, lo intuiamo accidioso dietro al laptop, solo un paio di volte imbraccia la sua chitarra; a destra la lunga chioma liscia di David Sylvian, diviso tra laptop e pennellate di piano. Gli schermi rimandano marosi orizzonti, fluorescenze gassose, nebulosi fondi rossi, ellissi, allusioni a caleidoscopi stroboscopici, con una ripetitività impressionante. Non che siano meglio le onde sonore, ahinoi. Un'ora e cinque minuti di tappeto rumoristico appena suggerito: un oscuro, essenziale brusio, propagato da Mathieu, con echi di piano di Sylvian e con sporadiche (due?) puntate à la Fennesz. Tutto è flemmaticamente dilatato. Il poco pubblico comincia a riposare: in molti casi a dormire. Altri non ce la fanno a stare seduti: si muovono sulla poltrona, vanno via. Per usare i termini evocativi utilizzati per la presentazione della serata Mathieu sembra “destrutturare” altro, piuttosto che i suoni, a cominciare dalla pazienza del pubblico. La monotonia viene inframezzata da visioni poetiche declamate dalla voce di Franz Wright: davvero troppo poco.
Si prosegue così per tre quarti d'ora, quando un suono potente sembra aprire un varco nella noia, per soffocare subito dopo. Allo scoccare dell'ora il fraseggio forse migliore, quindi una melodia d'archi campionata: fine. I tre si alzano, sala ancora completamente buia. L'applauso tarda a partire e rimane soffuso e accennato, anch'esso, pochi secondi: i più sembrano ancora dormire, o forse tirare giù qualche santo.
Davvero troppo poco e tutto troppo già sentito. È ambient, ancora? David Sylvian aveva cominciato queste “sperimentazioni” quasi trent'anni fa, appunto, Alchemy, con Robert Fripp, quindi la collaborazione con Holger Czukay. È una riproposizione di una potente venatura isolazionista, astratta, dilatata, “sperimentale”? Ma presentata in tre dà l'idea di incomunicabilità, involuzione, diciamo pure sufficienza, pressapochismo, tutt'altro che potente, fiacca, fiacchissima. È un mix minimalista di analogico e digitale? Certo, ma a scartamento ridotto, che non raggiunge neanche il “minimo sindacale”, altro che “minimalismo”. In definitiva hanno ragione gli assenti: disertare false “sperimentazioni” come questa, pericolosamente simili a vere e proprie “sòle”, come direbbero a Roma, è la migliore risposta da dare. Viene il dubbio che gli stessi promoters della serata (Meet In Town) non abbiano “spinto” il concerto più di tanto, consapevoli della pochezza cui si andava incontro.
Siamo certi che i nostri “tre moschettieri del nulla” di domenica sera possano fare molto di meglio: se solo volessero regalarci un po' della loro sapienza e non passare solo all'incasso (con il rischio che a rimetterci siano i promoters di Meet In Town, cosa che dispiacerebbe assai, poiché non crediamo se lo meritino, viste le molte altre serate felici che ci hanno fatto passare).
Articolo del
25/09/2013 -
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