|
Una delle cose incomprensibili di Roma è legata all’impossibilità di prevedere l’affluenza in un concerto che sia di gruppi famosi o di perfetti sconosciuti. Stesso discorso vale per gli orari d’inizio, se esci alle 21.00 la tua band magari ha già suonato da un pezzo. Se arrivi alle 21.30 puoi trovare i locali in stato di stand-by sonnecchioso, con i cancelli ancora chiusi. Forse lo fanno per rendere il tutto più incerto e quindi più emozionante, ‘ma che ce frega ma che ce’mporta’ è venerdì sera, è già festa da ieri e domani non si lavora. Sono le 22.30 quando sul palco del Traffic qualcosa inizia a ronzare, sono i Marshall accesi già caldi, qualcuno armeggia con la chitarra e l’altro accorda il basso. Sono i Sixty Six, formazione romana che dorme con i dischi dei Pantera e Down sotto il cuscino. Il sound è potente ma la resa non è al meglio per il suono della chitarra. Siamo davvero poche anime e, nonostante gli sforzi del cantante di coinvolgere i presenti, la risposta tarda ad arrivare. Detto questo la band suona bene e si porta a casa la pagnotta con 25 minuti di chitarre pesanti e growl scorticante. Pochi minuti dopo prendo un whiskey al bar e mi ritrovo di fronte un tizio magro e dinoccolato, con capigliatura a metà strada fra Hendrix e Gazzè. Ha due chitarre in mano, Diavoletto per la precisione, nel tentativo allacciarne una perde la tracolla della seconda chitarra che casca rovinosamente sull’altra intaccandone il retro. Lo aiuto, lui mi guarda preoccupato, gli dico che non è niente ma non serve a molto, vuole salire sul palco e spaccarla per la rabbia. È il chitarrista degli Ape Skull, secondi in scaletta. Il loro suono è puro omaggio a Hendrix. Sono un trio guidato dal batterista. Aprono con due pezzi che assomigliano, in ordine d'esecuzione, a Purple Haze e Foxey Lady sciorinando una serie di assolo in omaggio al chitarrista di Seattle. Il canto è affidato al batterista, impegnato in una serie infinta di pattern senza sosta che sulla lunga distanza appaiono stucchevoli. Sebbene abbiano qualche problema tecnico dopo la prima canzone, lo spettacolo decolla regalandoci una buona mezzora di torrido rock blues, sigillata da I Got No Time degli Orange Peel.
Ultimo whisky, me lo prometto, e sono già le 00.40, da fuori si sente il rumore del basso simile al boato di uno shuttle. Ok ok, abbiamo capito arriviamo. Sul palco il lungo crinito bassista, con dread simili al chitarrista degli Skunk Anansie, è pronto. William è dietro la sua Les Paul, berretto in testa, sorriso a 32 denti, maglietta nera e jeans scoloriti, massima sobrietà non quella mentale sia chiaro. Pochi minuti prima lo avevamo lasciato alle prese con un Calcio Balilla malfunzionante, impegnato in attacco con uno dei ragazzi venuto per il concerto (ADORO le band americane). Dietro le pelli c’è seduto c’è Rob Oswald che si rivelerà il punto di forza della serata. Un motore fluido e potente capace di trascinare il pubblico in un headbanging mostruoso. Partono in sesta, perché la quarta gli sta stretta, con un sound spaccaossa, la formula è vincente: chitarra e basso suonano gli stessi riff iniziali per poi essere divisi dalle bordate sparate da Oswald (con un cognome così che ti puoi aspettare?) che sembra avere una sanguinosa faida con la propria batteria. Ne rimarrà solo uno, LUI. Bill è in forma smagliante, fomenta il pubblico incitandolo a urlare, scusandosi per il concerto saltato a luglio. È felice di essere a Roma e di aver recuperato la data (anche per questo ADORO le band americane). Prima di ripartire butta giù un sorso di birra e si lancia in due riff che renderebbero felice Toni Iommi. Nella pausa ci chiede se, per caso, siamo già sazi, per tutta risposta arriva ruggito del pubblico. Ok, si va avanti per un’altra mezzora di mazzate raddrizza scoliosi. Verso l’una e un quarto i nostri lasciano il palco, ma è solo la solita pantomima, il primo a rientrare è Rich ripresosi dopo una canna killer passata da uno del pubblico, lo segue Bill evidentemente su di giri per la bionda ingurgitata. Chiede se l’abbiamo fatto risalire solo per un brano, il pubblico non aspetta altro esplodendo in un boato e gli ultimi tre pezzi sono come una demolizione controllata, ma non per questo meno pericolosa o devastante. Le cariche sono piazzate nei punti chiave, il risultato è l’asfaltatura dei presenti con relativi danni strutturali alle colonne portanti del Traffic. Due minuti dopo loro sono già fuori (altro che star fighette pronte a scappare e nascondersi dopo 50 minuti di show) a prendersi i meritatissimi complimenti dei fan. Durante le foto sorridono e ci ringraziano di essere stati lì, in una mano hanno una birra e nell’altra qualcos’altro. L’ho già detto che…ADORO queste band americane?!
Articolo del
02/11/2013 -
©2002 - 2025 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|