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Ritrovarsi di fronte ai Low - dopo il concerto all’Alpheus del lontano mese di maggio del 2007 - comporta sempre un’emozione particolare. Colpisce l’integrità artistica di quella che ormai possiamo considerare una “cult band” che si è formata negli Stati Uniti nei primi anni Novanta e che conserva intatte quelle caratteristiche musicali che con il passare degli anni l’hanno resa celebre. Le atmosfere rarefatte, la dimensione onirica e gli arrangiamenti minimali dello slow core dei Low non hanno trovato fin qui rispondenze fra gli altri gruppi della scena indie.
La band di Seattle presenta dal vivo brani tratti da The Invisible Way, il loro ultimo album, pubblicato proprio quest’anno, ma in realtà il concerto è l’occasione per riascoltare dal vivo tante composizioni dei Low, inserite anche negli album precedenti a questo. Un lungo applauso accoglie l’ingresso sul palco di Alan Sparhawk, chitarra elettrica e voce e di sua moglie Mimi Parker, percussioni e voce, il nucleo storico della band al quale si aggiunge Matt Livingstone, al basso elettrico e alla pianola, un giovane musicista che fa parte del gruppo dal 2005. Ascoltare un concerto dei Low significa fare i conti con il concetto di “stillness” (immobilità, tranquillità, calma) trasformato in linguaggio musicale. Il nome stesso della band Low (piano, basso) sembra riprodurre uno stile, una precisa modalità di un linguaggio artistico e musicale non accessibile a tutti, ma assolutamente delicato e a tratti nervoso e struggente. La voce di Alan e le melodiose interpretazioni di Mimi hanno il dono della pacatezza, gli arpeggi di chitarra disegnano accordi di natura eterea, e composizioni come Holy Ghost e Clarence White raggiungono momenti davvero sublimi. Ma non confondete tutto questo con concetti come appagamento e rassegnazione, perché sia nelle liriche delle canzoni che nel crescendo musicale dei singoli brani, i Low mostrano per intero quella vocazione alla distorsione che fa parte per intero della loro estrazione psichedelica e della loro storia musicale. Un post rock visionario e sofferto quello dei Low che parte dalle pulsioni più semplici dell’Uomo, come l’amore per la Natura, una cura delle relazioni famigliari, elementi questi che vengono accompagnati da richiami alla tradizione “folk underground”. Ma durante il percorso i toni della narrazione conoscono elementi più drammatici e il suono delle chitarre elettriche rompe l’incantesimo, squarcia il silenzio e il nervosismo cresce, senza peraltro influire sull’atteggiamento dei musicisti sul palco, quanto mai sobrio ed estraneo a qualsiasi forma di autocompiacimento. La distorsione si eleva a nuova componente dell’intreccio narrativo, lo caratterizza, lo approfondisce, diventa quasi una necessità. Sembra di essere in uno stato di dormiveglia: il dolce sopore dei passaggi più melodici e delicati del live act dei Low viene continuamente infranto dalle grida della chitarra elettrica, assecondate dall’incedere epico ed incessante delle percussioni di Mimi, che non perde occasioni per regalarci la grazia infinita dei suoi interventi vocali, sia come solista sia come contrappunto alle interpretazioni di Alan.
L’intesa della band è perfetta, lo show incontra i favori del pubblico, che lo gusta con calma, lo assapora allo stesso modo in cui si procede con un buon bicchiere di vino. Molto bella sul finale la cover di Stay di Rihanna, un brano di musica pop che viene trasformato in una slow ballad, molto ispirata e drammatica.
SETLIST:
Plastic Cup On My Own Especially Me Waiting Just Make It Stop Sunflower Monkey Holy Ghost Clarence White Dragonfly Words Pissing Nightingale Last Snowstorm Of The Year Murderer Stay (Rhianna)
Encore: When I Go Deaf Good Night
Articolo del
06/11/2013 -
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