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Mettiamo subito in chiaro una cosa: il Bob Dylan che ci siamo trovati di fronte non vestiva i panni di una leggenda vivente che decide di fare un “tour” destinato ai teatri alla ricerca di facili successi attraverso spettacoli-jukebox basati sul suo sconfinato repertorio, frutto di cinquant’anni di carriera. No, questo Bob Dylan viene da una produzione recente che è decisamente fra le sue migliori. E’ sufficiente ricordare che sia Together Through Life del 2009 che il meraviglioso Tempest dello scorso anno hanno raggiunto le prime posizioni nelle classifiche di vendite dei dischi sia in U.S.A. che in U.K . Certo, viene da pensare che questo dipenda in parte da una certa miseria musicale contemporanea, ma si tratta di un’altra storia.
Molta curiosità quindi per quello che Bob Dylan e la sua band ci avrebbero proposto, insieme a qualche preoccupazione per una “location” come l’Atlantico, che in passato non aveva brillato molto in quanto a resa acustica e dunque godimento dello show. Diciamo subito, a questo proposito, che i recenti interventi per migliorare l’acustica del luogo hanno prodotto buoni frutti, migliorando di molto la situazione. Rimane l’atmosfera raccolta del teatro, il senso di “convivio” che gli organizzatori - probabilmente su invito dello stesso artista - hanno cercato di frustrare attraverso degli inviti, risultati ovviamente inutili, a non cantare durante le esecuzioni. Non vogliamo condire il nostro resoconto con inutili panegirici sulla carriera del mito Dylan, sul significato e sull’influenza che ha avuto sulla carriera artistica di varie generazioni di emuli o di chi a lui si è semplicemente ispirato. D’altro canto, Dylan stesso ha raccolto ispirazione a piene mani dai cinquant’anni che lo hanno preceduto (Woddy Guthrie, Pete Seeger) ed e perciò inutile presentarlo come colui che ha scoccato scintille che altrimenti non sarebbero mai state accese. Raccontiamo invece di musiche e soprattutto testi che questo signore di 72 anni sa ancora proporre, parliamo di emozioni che riesce ancora a suscitare.
La scenografia dello show risulta essenziale, quasi spartana, da atmosfera raccolta. Con puntualità quasi elvetica la band si presenta sul palco: c’è il mito di Duluth, Bob Dylan, al pianoforte e all’armonica, ci sono Charlie Sexton, bravissimo come sempre, alla chitarra elettrica, Stu Kimball, alla chitarra acustica, Donnie Herron, alla chitarra slide, violino e al banjo, Tony Garnier, al basso e contrabbasso, e George Receli, alla batteria. L’accompagnamento ideale forse per il Dylan attuale: una band con una buona tecnica di base e una fedele aderenza alle direttive del capo. Il concerto è diviso in due tempi, di un’ora scarsa e otto pezzi ciascuno. L’apertura è affidata alla storica Leopard-Skin Pill-Box Hat tratta da Blonde On Blonde del 1966, ma la vera magia inizia quando cominciano ad echeggiare le note di una stravolta - come suo costume per i brani più noti - Don’t Think Twice, It’s All Right. Proprio a partire da qui si apre la diatriba fra quanti sostengono che tale esecuzione sia stata fatta appositamente per evitare il coro del pubblico e quanti invece pensano - in maniera di certo più nobile - che l’artista sia in uno stato di continua evoluzione e reinvenzione del sé musicale e perciò metamorfosi. Certo è che, grazie a questa “tecnica”, abbiamo potuto riascoltare, anche se in una versione profondamente alterata, ben nove canzoni del suo repertorio più classico. Ricordiamo, prima della pausa, l’esecuzione di gioielli come Make You Feel My Love e Queen Jane Approximately, insieme ad un asciutto “ciao amici” come unico e solo approccio comunicativo extra-musicale. La serata fin qui ci offre conferma del Dylan più recente e del suo abile impasto fra rock, blues, folk e alternative country, o Americana come dicono oltre Oceano.
Alla ripresa dello show Bob Dylan si mette al pianoforte a coda e sono proprio questi momenti che ci confermano la qualità acustica della performance e anche del club che la ospita. Certo, resta da capire perché - oltre ai suoi interventi al pianoforte e all’armonica a bocca - Bob Dylan non abbia voluto dedicarci neppure una strimpellata di chitarra, strumento da lui totalmente ignorato durante la serata. Niente di grave (forse) anche perché sembra in gran forma in quanto a voce, il che non è - anche per ovvie ragioni anagrafiche - così scontato. Il concerto procede fra brani vecchi e nuovi. Le canzoni epocali come Highway 61 Revisited, Every Grain Of Sand, Most Likely You Go Your Way (And I’ll Go Mine), Boots Of Spanish Leather, fanno il loro lavoro da sole, mentre i brani nuovi, un pò meno conosciuti, si giovano del carisma di Bob Dylan che da solo basta ad ipnotizzare l’uditorio, in alcuni passaggi forse anche oltre il suo merito effettivo. Il concerto si avvia verso la fine e anche qui - quanti potevano avere qualche minimo dubbio su un miglior impiego dei soldi spesi per il biglietto - cedono di fronte a sua maestà Like A Rolling Stone. Stravolgila pure Mr Zimmerman, ma adesso non c’è più niente e nessuno che riesca ad arginare la voglia di cantare del pubblico. Certo, l’inglese del testo risulta un po’ fantasioso, ma il ritornello lo sanno anche i muri e le poltrone.
Finisce qui? Avete ancora voglia? Ed ecco che arriva un’altra perla come l’esecuzione di All Along The Watchtower. A quel punto chi non ha pensato a Jimi Hendrix? Chissà se fra i presenti c’era qualcuno che lo vide, Jimi, nel lontano 1968 al Piper...
Articolo del
11/11/2013 -
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