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C’è qualcosa di fortemente pacato nelle serate invernali belghe che quasi ti viene da pensare che non sia un caso ascoltare The National al Forest, arena polifunzionale nella periferia deserta di Bruxelles. L’ingresso del gruppo spalla This Is The Kit passa quasi inosservato nel brusio di una folla totalmente in attesa del pezzo forte. Peccato: la band inglese ha spunti sonori interessanti e penso che avrò voglia di riascoltarli con calma una volta tornata a casa.
Dopo un breve cambio palco i The National si offrono al pubblico senza troppe manovre di suspance mentre dietro di loro immagini dalle forme geometriche ed evocative sosterranno per tutto il concerto il tiro emozionale. La prima della lista è Don’t Swallow the Cap, inno melanconico tratto dall’ultimo album “Trouble Will Find Me”, antipasto misto di sinth, tastiere e ritmiche incalzanti.
Quasi senza interruzione I Should Live In Salt ci spinge verso la struggente verità affettiva di Anyone’s Ghost e il concerto ha davvero inizio. Lentamente, con la cadenza dinamica che da sempre caratterizza i lavori del gruppo di Cincinnati, nel vortice di spirale sgonfia, in apparenza senza picchi ma sorpendentemente invadente, lo spettacolo comincia a prendere vita e anche la performance del frontman Matt Berninger comincia a farsi smaniosa. Demons è il primo pezzo a coinvolgere il pubblico in un coro, sonorità anni ’80 che fingono di planare leggere su una base kraut-rock per volare a mezz’aria su un’ electro-pop essenziale, sempre senza sbattere le ali. Sea of Love è una ballata indie-rock che risveglia desideri sopiti mentre Hard to Find è la calma che segue la certezza di un amore.
Una piccola fiamma comincia ad accendere il palco, illuminato a giorno da sagome di uccelli in bianco e nero. Arriva a profetizzare sensazioni di paranoie relazionali I’m Afraid of Everyone, tessuto di ritmiche di batteria e chitarra ben saldate tra loro in un unico filo tirato dalla voce subacquea di Matt. Due bassi sul palco e un’iride gigantesca sullo sfondo per un brano il cui finale strumentale rapisce e prepara alla poesia notturna di Conversation16, parodia di narrazioni e spaccati metropolitani in cui sguazzare con piacere prima di tuffare le orecchie in Squalor Victoria forse uno dei pezzi più rock di tutto il concerto.
Si inizia con un ostinato di batteria seguito dall’inserimento delle chitarre sornione dei gemelli Dessner: è l’inizio della metamorfosi di Beringer che a metà pezzo schianta il microfono a terra e ci urla contro, come se in un istante avesse realizzato di essere una rock star. Comincia I Need My Girl minimal pop sorretto da un riff di chitarra ripetitivo e circolare cui quasi di nascosto si aggiunge un tappeto di batteria emotivo che tanto per non badare alle citazioni “continua a farci sentire sempre più piccoli” fino a traghettarci all’evocativa This Is The Last Time dal mood dance e modern indie. Baby Will Be Fine scorre leggera come ondate di questa fresca nel pieno di un agosto rovente mentre Abel è uno scossone r’n’r che fa muovere i piedi degli spettatori in timidi passi di danza, dimostrazione che i ragazzi sanno anche regalare attimi di pura aggressività liberatoria ai propri adepti.
Lo schermo proietta neve che cade e sembra che l’inverno abbia deciso di entrare al Forest sulle note di Slow Show, sonorità da viaggio per un cantato quasi monotonico; ed è il piano a riconciliarci con’intensione profondamente nostalgica del brano. Pink Rabbit è un incanto in cui perdersi gratuitamente con moderazione, andature lente come una camminata stanca e piano pacificatore di un cantato struggente, da pelle d’oca. Si rimane sempre sull’ultimo disco con Humiliation, pop-rock dal sapore 90’s che ricorda vagamente i primi dischi degli U2 per poi tornare al passato di "High Violet" con England. Fake Empire viene annunciata come ultimo brano anche se è scontato che non sarà così, ma noi le dedicheremo ugualmente attenzione, intrisa com’è di lirismo pianistico e controtempi smaliziati che non possono che farne uno dei brani più belli di “Boxer”.
Ci si avvia con tristezza alla fine mentre, dopo aver cantato le ultime canzoni del primo set trascinando il microfono tra una folla straziata di emozioni, la metamorfosi da vecchio licantropo sentimentale di Beringer volge al termine. La scomparsa obbligatoria dietro le quinte e poi si ricomincia con uno scroscio di applausi. E se il demone gentile di Matt e le sagome speculari dei gemelli ai due lati del palco fanno pensare a uno scenario Bulgakoviano Lean, ballata folk usata come colonna sonora di ‘Hunger Games’, ci porta direttamente nel punto di massima intensità del concerto. Mr November è la dedica al figlio di Dessner, perfetto brano new wave tratto dal sottovalutato Alligator, un crescendo graduale di intensità dinamica che culmina con l’urlo di Beringer per poi ritrovare temporaneamente il proprio equilibrio in un passaggio strumentale dominato dalla batteria di Bryan Devendorf.
E’ la volta della bellezza che precede la fine e di Terrible Love, forse sunto concettuale di tutto "High Violet" o comunque il suo pezzo più cantato, scritto a quattro mani con Aaron Dessner. E’ l’ultimo pezzo e rimane poco da esprimere a parole che il cuore affamato non abbia risucchiato da questa nottata densa di scossoni emotivi. Arriva il momento più intenso, la culla pacificatrice di ogni tensione.
Mentre canta Vanderlyle Cry Baby Cry, Beringer sembra un bambino travolto dall’emozione della prima recita scolastica, e ci piace ricordarlo così, col suo sorriso buono e ubriaco, spargere nell’aria la meraviglia del suo canto, un condensato di amore e memoria che non dimenticheremo facilmente.
Articolo del
23/11/2013 -
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