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Milano, Alcatraz, ore 23.30 di mercoledì 20 novembre 2013. Il concerto – strepitoso, tritapietre – dei Primal Scream è finito, e il cantante Bobby Gillespie (51 anni compiuti, ma 25 dimostrati nel fisico e sul palco) si attarda sul palco a stringere le mani ai fan e a regalare feticci del concerto: plettri, bacchette, scalette, cembali, maracas. A un certo punto si china, sempre stringendo mani al pubblico in delirio, che non ne vuole sapere di lasciarlo andare, infila una mano in tasca e, svelto come una faina, regala una pasta a un piacevolmente esterrefatto ammiratore che sta giusto davanti a me. La cronaca del concerto potrebbe finire qui, perché in questo episodio sta il succo di tutto: e cioè i Primal Scream sono ancora se stessi, la band che più di tutte ha dato voce e note alla E-generation con Screamedelica, il disco che nello stesso tempo è il Sgt. Pepper della seconda estate dell’amore (benché uscito quattro dopo di essa, nel 1991) e insieme a Nevermind dei Nirvana, uscito il giorno dopo di esso (rispettivamente il 23 e il 24 settembre), quello che ha dato un indirizzo preciso agli interi anni 90. Che da quel momento sono stati all’insegna o del grunge o della contaminazione tra rock e dance elettronica. Gli Scream in Italia non sono mai stati tanto popolari, e di questo non possiamo che dolercene, visto che hanno dato – a star stretti - almeno un disco fondamentale alla Storia del Rock e sono gli unici detentori riconosciuti del titolo di ‘Eredi’ degli Stones, capaci di essere più Stones degli Stones e sfornare pezzi per i quali i Jagger & Richards di oggi sarebbero capaci di firmare un altro patto col diavolo (Country Girl del 2006 parla da sola). Così da queste parti si vedono raramente, e pure in sordina. A conferma di ciò, mercoledì 20 sbarcano all’Alcatraz di Milano in versione ridotta, senza i fiati e i cori che gli abbiamo visto sfoderare sul palco di Glastonbury 2013 (in apertura proprio agli Stones); per di più, il locale milanese è diviso a metà da una grande tenda nera, forse per mascherare il fatto che il pubblico è sì folto e devoto, ma non oceanico.
Gli Scream dal vivo sono leggendari, nel bene e nel male: per la loro incapacità cronica di rendere al meglio negli Usa e in orari che non rientrino nelle tenebre avanzate, così come per la loro sfolgorante e minacciosa tabella di marcia schiacciasassi, quando l’ora e giusta e le sostanze assunte hanno carburato per bene. Così, quando salgono sul palco alle 21.30, giusto una mezzoretta in ritardo rispetto a quanto preannunciato, partono semplicemente bene: l’apertura, affidata alla title track dell’ultimo – e molto bello – album, 2013 è “solo” potente, con quel riff di sax, riprodotto alle tastiere (uguale, esistono i campionamenti) dal buon Martin Duffy (ex Felt e in forza agli scozzesi dal 1989!), che sa tanto di Roxy Music; il ritmo incalzante; il testo, lirico e insieme ferocemente impegnato nella denuncia delle storture sociali e politiche del mondo in cui viviamo (“Thatcher's children make their millions, hey, remember Robespierre! / Guilty of complicity is guilt, what are we doing here?”); roba che noi italiani ce la sogniamo, smarronati come siamo ora da sloganisti partitici e retorici ora da cantautori da Camerettistan. Seguono altri brani dall’ultimo disco, Invisible City, Goodbye Johnny, tra gli altri, ma tutto come in un “normale” concerto, con pure un momento di stanca dopo circa tre quarti d’ora di concerto. Ma ormai si è fatto abbastanza tardi. La band sfolgora: nonostante si siano fisicamente inchiattiti, Duffy e Innes, il chitarrista (unico altro membro storico della band fin dalla sua fondazione, oltre a Bobby), pestano come matti, così come Darrin Mooney alla batteria; il giovane Little Barrie Cadogan, che non si è mai risparmiato, comincia tirar fuori meraviglie dalla sua sei corde; e per tutto il live la nuova bassista, “mystery girl” Simone-Marie Butler (scovata da Barrie: lavoravano nello stesso negozio di chitarre) è una presenza massiccia, affidabile e sexy.
Ma ora Bobby diventa il Dio del rock’n’roll: sembra assumere su di sé lo spirito del Jagger anni ‘60 e imprime al live una nuova marcia, danzando tra selve di mani che si protendono a volerlo toccare come il Profeta che è. La svolta è una cazzutissima Swastika Eyes, seguita dalla già citata Country Girl, dimostrazione di come si possano coniugare il cajun di New Orleans all’energia del punk che colpisce il pubblico come un’ulteriore sferzata di energia che promana dal palco e trasforma le prime file centrali in una bolgia pulsante di pogo. Questi sono i Primal Scream! Sono sul palco e hanno deciso di dare una lezione di rock’n’roll all’Italia, ricordando che il Verbo non è tale se il rock, la durezza, non è accompagnato dal roll, il dondolare, la voglia di ballare, i piedi e il culo che si muovono, cosa che i nostrani wannabe rockers si dimenticano più che spesso. Rocks, tanto bistrattata al momento della sua uscita e ormai un classico assoluto, è il punto focale di questa lezione, robusta e svagata insieme: in una parola, irresistibile. E vi assicuro che quei 5 minuti scarsi a lei dedicati dagli Scream nel set di Milano valgono quanto 24 discografie complete dei vostri Pearl Jam. Seguono Jailbird” (e tutti a cantare “I'm yours, you're mine / Gimme more of that Jailbird pie”) e It’s Alright, It’s Ok, ultimo singolo della band (passato molto in radio anche da noi): lunga, enfatica, ispirata, allungata dalla band fino a comprendere un intermezzo dove all’improvviso Duffy cambia un accordo e – meraviglia – compare il suo archetipo gospel, quella Oh Happy Day, ben nota anche da noi per la pubblicità natalizia di uno spumante, che Bobby si ingegna a far cantare al pubblico, che risponde volentieri e come può.
La band esce. Non è possibile. Si alza il coro “We want more!”. Prevedibile ma sempre stupefacente come ogni rito, il rientro dei Primal vede Bobby indossare la famosa camicetta argentata e glitter dell’era di Screamedelica: e infatti è il momento dei gioielli. Prima una dilatata Higher Than The Sun, che a metà si trasforma in una versione dub di Who Do You Love di Bo Diddley. Quindi – incredibile! – una delle più struggenti ballate che gli Stones si mangiano le mani per non aver scritto: I'm Losing More Than I'll Ever Have, da Primal Scream del 1989! Tanta delizia è solo un assaggio: gli intenditori sanno che dal suo remix è nata la pietra miliare Loaded. Che – puntuale – segue: con il sample di Peter Fonda (“We wanna be free to do what we wanna do / And we wanna get loaded / And we wanna have a good time”) e il drumming“rubato” da un remix italiano e illegale di What I Am di Edie Brickell è una celebrazione colossale dell’unione vitale e feconda di blues, rock, psichedelia, elettronica, acid house. Movin On Up chiude il set, lasciando il pubblico a gola secca, dopo aver urlato su ogni ritornello “I'm movin' on up now / Gettin' out of the darkness / My light shines on”, in un clima di redenzione, resurrezione e insieme amore per il peccato, chiamiamolo così, che per un attimo sembra non conoscere nessuna contraddizione. Finisce come raccontato in apertura. Grande lezione di rock’n’roll, dicevo. Dimostrazione muscolare di cos’è una rock band e di cosa voler dire aver scritto la Storia. I Primal se ne vanno lasciando stremati i fan per tanta potenza, e senza aver suonato classici senza tempo come Come Together, Slip Inside Your House, Damaged, Kowalski, Star, Kill All Hippies, Funky Jam, Miss Lucifer, Some Velvet Morning, impressionanti sacerdoti di una sacra celebrazione catartica. Fans stremati sì, ma non soddisfatti. We Want More, Their Rock Majestic, Rock’n’roll Gods!
Articolo del
28/11/2013 -
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