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Il traffico intenso, il freddo e il gelo potevano suggerire un caldo rifugio domestico, ma niente e nessuno poteva impedirci di assistere al ritorno a Roma di Nick Cave And The Bad Seeds che rappresentano ancora, a tanti anni di distanza dal loro esordio, l’anima nera del Rock And Roll. Il gruppo presenta dal vivo Push The Sky Away, il disco nuovo, un album fantastico, che ci offre il lato più intenso ed introspettivo dell’artista australiano residente a Berlino. Ma il concerto di questa sera, all’interno di una Sala Santa Cecilia gremita al limite della capienza, è anche l’occasione per riproporre brani più datati, il cui fascino però non risulta affatto sopito.
La figura alta e sottile di un Nick Cave stretto in un completo nero lucido si staglia all’ingresso del gruppo intorno alle 21 e 40: accanto a lui Warren Ellis, al violino, George Vjestica alla chitarra elettrica, Conway Savage, alle tastiere, Martyn Casey al basso, Barry Adamson, alle percussioni e Jim Sclavunos, alla batteria. La scenografia è minimale, le luci sono basse, quello che serve a Nick Cave per dare inizio al suo cabaret nero decisamente ipnotico e ammaliante che reca al suo interno memorie del teatro brechtiano e di tanta letteratura decadente di inizio secolo.
Si comincia alla grande sulle note morbide e avvolgenti di We No Who U R, che poi è la prima traccia del nuovo disco: la voce di Nick Cave è inconfondibile ed affascinante e quel “we no who U R/ we know where you live/ And we know there is no neede to forgive” ripetuto con una dolcezza infinita, comincia a scavare dentro, nell’animo di quanti sono presenti in sala, comodamente seduti in poltrona. Ecco, questo particolare, non sembra corrispondere all’idea di show che Nick Cave ha nella mente. La cosa lo infastidisce un po’, ma lui ha pronto il rimedio. Al momento del crescendo ritmico di Jubilee Street, un altro brano fortemente alcolico, rifinito a perfezione dal violino di Warren Ellis e dalla chitarra di George Vjestica, Nick Cave infrange gli steccati e - del tutto incurante delle rigide norme dell’Auditorium – si getta fra il pubblico delle prime fila, neanche fosse l’Iguana di Detroit, arriva fino da noi in un balzo, camminando sulle spalliere delle poltrone. E’ il delirio, è il tripudio più assoluto ed è la fine di tutto per quanti cercavano di mantenere il posto assegnato. Nick Cave si lascia travolgere dal dolore di cui sono impregnate le liriche del testo: grida come un ossesso, alza le mani verso il cielo, mentre altre braccia si protraggono verso di lui, lo cercano, lo toccano, quasi per consolarlo, per trasmettere vicinanza.
Dopo appena pochi minuti il freddo fuori è dimenticato, il ghiaccio si è sciolto, l’atmosfera è già incredibilmente calda, infuocata. Le successive esecuzioni di Tupelo e di Red Right Hand mantengono alto il tono della serata. Malgrado i suoi 56 anni di età Nick Cave si mantiene in una forma smagliante, sale e scende dal palcoscenico con grande agilità e dialoga freneticamente con i suoi Bad Seeds e con il pubblico. Una ragazza riesce a salire sul palco, neanche lei sa come ha fatto, si accontenta di stringergli la mano, ma lui le chiede di restare e di aspettare sol un momento. La band intona le note di Mermaids, il brano più struggente del nuovo album, e allora lui la invita al microfono, la abbraccia con tenerezza infinita, e intona “I believe in God/ I believe in Rapture/ I believe in Mermaids too”.
Certo, qualcosa è cambiato in Nick Cave: abbandonato il nichilismo autodistruttivo dei suoi esordi, ha abbracciato l’inquietudine della fede religiosa, vissuta come una continua ricerca, come un impulso verso l’ignoto, che è poi il motivo ultimo della folle corsa del Rock And Roll. Se l’effetto dell’incedere dei Bad Seeds sul palco, a cominciare da Warren Ellis, capelli molto lunghi e barba incolta, con l’archetto del violino piazzato dietro la schiena, neanche fosse stato appena trafitto dai Sioux, è decisamente minaccioso, la figura di Nick Cave si distingue invece come quella di un fervente predicatore, sempre alla ricerca della Verità, che persegue con una intensità luciferina. The Weeping Song è un’altra perla incastonata nel passato, che viene però riproposta in una versione davvero toccante. Stesso discorso per West Country Girl, Into My Arms e People Ain’t No Good, slow ballads da brivido, tratte da The Boatman’s Call, che Nick Cave esegue da solo al pianoforte. Molto bella anche l’esecuzione di God Is In The House, da No More Shall We Part, estremamente significativa per comprendere la fase artistica e personale che sta attraversando l’artista. Ma l’energia e la rabbia dei Bad Seeds non tardano a farsi sentire, sia nel mirabile crescendo di The Mercy Seat che su Stagger Lee, tratto dal non dimenticato Murder Ballads. Risulta poi davvero ipnotica e narcotizzante l’ambientazione di Higgs Boson Blues, un brano molto lungo in cui la narrazione di Nick Cave raggiunge vertici straordinari, alle soglie di un reading letterario o di una performance teatrale di ottima levatura.
Epico, drammatico, anche consolatorio però mai passivo ed arrendevole il rock decadente di Nick Cave, che chiude il concerto con Push The Sky Away, un’altra ballata molto intensa, dal nuovo album, scritta da un’artista alla ricerca costante dei limiti, da un rock’n’roller che non accetta restrizioni, che si spinge sempre oltre l’orizzonte delle cose viste così come sono. Nick Cave torna sul palco per altre tre splendide esecuzioni e ci regala We Real Cool in un duetto con un ragazzo che era riuscito a salire ancora una volta sul palco eludendo qualsiasi sorveglianza o controllo, che sarebbero stati peraltro spazzati via da un semplice sguardo dell’oscuro, ma oltremodo tenero, performer, ormai berlinese.
SETLIST:
We No Who U R Jubilee Street Tupelo Red Right Hand Mermaids The Weeping Song From Her To Eternity West Country Girl God Is In The House Into My Arms Love Letter Sad Waters People Ain’t No Good Wide Lovely Eyes Higgs Boson Blues The Mercy Seat Stagger Lee Push The Sky Away Encore Babe You Turn Me On Deanna We Real Cool
Articolo del
01/12/2013 -
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