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Difficile spiegare a parole Le Luci della Centrale Elettrica, provare a farne vedere le pieghe, le direzioni su cui si muove, o tentare di rendere in prosa l’idea musicale e di racconti che c’è dietro. Si rischierebbe (e si rischia) di dire troppo, di enfatizzare concetti e immagini che alla fine sono semplici, diretti, che sembrano voler rappresentare chissà quale “sentire” generazionale, e invece vogliono solo dire e raccontare una, dieci o cento storie, senza voler rappresentare nessuno. O altrimenti si rischierebbe di dire troppo poco, di banalizzare, di cercare a tutti i costi un riferimento, un canone già fissato, un filone dal quale è facile attingere perché tutto sia innocuo, prevedibile, facilmente comprensibile. La verità sembra essere che solo Vasco Brondi (aka Le luci della Centrale Elettrica) possa davvero illustrare, e far sentire cosa ci sia dietro quelle sue Luci: dietro quei testi disarmanti, talvolta in apparenza incomprensibili, dietro un’espressione che fonde mille rivoli di canzone indipendente italiana, spostandosi a tratti verso percorsi melodici semplicemente efficaci, e in altri momenti verso paesaggi sonori carichi, rumorosi, elettronici, sorretti da drum machine, ma anche da violoncello, chitarre acustiche e chitarre distorte. E che lo possa fare senza troppa prosa, solo con la sua stessa musica, solo con le stesse immagini dei suoi testi, dei suoi racconti, delle sue parole, delle sue canzoni. All’Atlantico di Roma, colmo di ragazzi giovani e giovanissimi, ma anche di un pochino più attempati appassionati, come il sottoscritto, curiosi di vedere come e se fosse cambiato il ragazzo che dietro un microfono gridava di una paranoica e chimica provincia emiliana, di sogni, di tossicodipendenti, di pusher, di disagio, di notti per strada, di comunità di recupero, disegni nel cielo, disegni nell’anima, Vasco Brondi si è presentato secco, quasi allampanato, con un giacchetto marroncino sopra la sua maglietta tempestata di stelle e del titolo del suo ultimo disco, Costellazioni, sempre coi suoi capelli nerissimi, i basettoni lunghi quasi fino al mento, e gli occhi pungenti, come sempre, come un falco, ma pronti, preparati a sorridere di fronte all’entusiasmo del suo pubblico per quella che lui stesso definisce “una festa senza senso”.
Lo avevo lasciato più timido, quasi schivo, cinque anni fa al Circolo degli Artisti, in un concerto (http://www.xtm.it/DettaglioMonografie.aspx?ID=7932#sthash.XY1arwsZ.dpbs) quasi intimo per atmosfera e dedizione, dove in versione quasi solitaria accompagnato dal solo (si fa chiaramente per dire) Giorgio Canali, aveva presentato il suo primo disco Canzoni da spiaggia deturpata. Ad aprire il concerto l’altra sera, ci ha pensato la giovane ma già dotata di grande personalità, Maria Antonietta, già conosciuta nei circuiti indie della musica italiana, e protagonista di un bel set acustico, chitarra e voce, con diversi dei suoi brani che sembrano, anche in versione così scarna, dotati di tante buone intuizioni, e protagonista anche di un brano a metà concerto cantato e suonato insieme a Brondi e la sua Centrale Elettrica.
Il protagonista della serata si presenta sul palco dell’Atlantico intorno alle 22.10, armato della sua chitarra acustica, con attaccata a scotch, come sempre, la scritta “Le Luci della Centrale Elettrica”, ma rispetto a cinque anni fa questa volta, ad accompagnarlo, c’è un quartetto formato da chitarra, violoncello, percussioni/drum machine, moog/campionamenti, e il primo brano in scaletta (La terra, l’Emilia, la Luna) è anche quello che apre il suo ultimo notevolissimo disco Costellazioni. Se il suo primo lavoro (e tutto sommato anche il secondo) ruotavano intorno alla sua chitarra acustica che distribuiva in maniera personalissima melodie e racconti, storie gridate e altre sussurrate, Costellazioni è un disco dove campionamenti, drum machine e consistenti dosi di elettronica, si mescolano alle chitarre, a pianoforte, synth, e al violoncello, disegnando paesaggi saturi e molto spesso sospesi, quasi a tracciare davvero un ponte tra l’Emilia, la provincia emiliana, le sue strade, le sue notti, e le stelle, la luna, i sogni carichi di speranza, chè c’è sempre da sognare e da sperare. “Madonna che silenzio che c’è stasera”: La terra, l’Emilia, la Luna, cantata a squarciagola dai presenti è il primo segnale: “sotto un cielo d'argento tra la ferrovia e la nuova moschea. Da una macchina arriva della musica elettronica del Nord Africa”. C’è subito un quadro, una scenografia, disegnata a tinte forti, un luogo reale, e anche la musica di sottofondo, questa musica elettronica, forse dozzinale, un po’ lontana, da un’auto lì vicino. Le Luci della Centrale Elettrica riempiono l’Atlantico di una coltre sonora spessa, densa, moog e percussioni, e dal fondo di questa umida fuliggine, emerge la vita carica di orrore e speranza, buio e luce: “sono un insieme di violenze e di speranze /di scontri e di feste”. Vasco Brondi canta anche lui con trasporto, passione (e mostra subito di essere anche migliorato molto come cantante, più preciso, più pulito, rispetto agli esordi) e canta di se’ stesso, dei suoi passi falsi, dei suoi pensieri, con una innocenza e una sincerità disarmanti. Questo suo essere vero, è la sua forza, lo capisci dalla voce emozionata ma solida che scandisce le parole, e forse alla lunga potrebbe essere anche il suo limite, perché uno che canta “Dammi solo quello che mi disorienta/ una cantilena per quelli che dormono in macchina/ e ci sia acqua per tutti quelli che come te vanno per deserti/ per tutti quelli che sono morti come sono vissuti/ felicemente felicemente felicemente e al di sopra dei loro mezzi/ felicemente felicemente felicemente e al di sopra dei loro mezzi.”, sta parlando di una vita che forse fa a pugni coi dischi venduti, coi tour, con i tutto esaurito e le ospitate in televisione. Ma, appunto, forse.
E sorprendente che i ragazzi tra il pubblico cantino a memoria tutti i testi, e quindi la notizia buona è che esistono ancora i cantanti e gli autori che riescono a coinvolgere una generazione, e che riescono a colpire con le loro canzoni. Il concerto delle Luci della Centrale Elettrica non è pero il riconoscersi a pugni stretti e braccia al cielo, e stringersi intorno al fuoco del rock dove brucia l’anima e la voce del protagonista (ma non solo), al centro del palco, chitarra a tracolla, ognuno a cercare un brandello di testo o una melodia dentro i quali riconoscersi. Difficile pensare che davvero tanti di quelli che sono a questo concerto possano davvero riconoscersi in queste storie livide, emarginate, di traffici e di (tossico)dipendenze, di centri di recupero e penitenziari. Ma non sembra essere questo il punto, e non c’è nessuna generazione da rappresentare o riscattare. Almeno non è questo il punto per Vasco Brondi, che in moltissimi brani abbandona la chitarra, e col microfono in pugno si agita, si dimena e salta da una parte all’altra del palco, felice come un folletto, dando la sensazione che spesso la sua gioia e la sua irrefrenabile euforia potrebbero essere quelle di uno qualunque dei ragazzi in platea che atterrasse in quel momento su quel palco, anche solo per un canto liberatorio. Ringrazia spesso e sorride da là sopra, Le Luci della centrale elettrica, quasi incredulo, sicuramente grato alla gente di questo successo.
Cara Catastrofe (“licenzieranno altra gente dal call center/Chè ci fregano sempre, chè ci fregano sempre”, con anche la citazione delle Camere separate di Pier Vittorio Tondelli), La lotta armata al bar e Lacrimogeni, sono istantanee dai primi due dischi, popolate da personaggi, strade, visioni notturne, tra discount, appartamenti subaffittati, sopracciglia rotte da manganelli, e pozzanghere. Nei brani più recenti si passa dal sound carico di Firmamento al crescendo ipnotico di Un bar sulla Via Lattea, con violoncello e fiati campionati che dettano il finale, alla bella e visionaria storia d’amore tra Chiara e Laura in Le ragazze stanno bene, tra viaggi all’estero, punti deboli, affrontare “quello che verrà”, il flusso costante di “compro oro”, e la confortante notizia, come dice lo stesso Vasco Brondi citando il testo per presentare il brano al pubblico, che “non c’è alternativa al futuro”. I momenti meno brillanti dal punto di vista compositivo, come il quasi disco/pop di Ti vendi bene, funzionano comunque alla grande dal vivo col pubblico che si lascia trascinare senza esitazione, mentre si adagiano anche dal vivo ipnotiche, inquiete e scanzonate allo stesso tempo sia Questo scontro tranquillo, che lo stesso autore definisce come il pezzo “più stupido e liberatorio” dell’album Costellazioni, e il lento andamento di Punk Sentimentale, e in quest’ultima è geniale il finale con “Strane ancora a casa mia le cose tue/sapessi com'è stato sentirsi innamorati a Milano 2”, con il trucco della citazione distorta, alterata, che molto spesso caratterizza i testi de Le Luci della Centrale Elettrica.
Dopo gli anni ’90, e la loro musica, citati in Sonic Youth (con Vasco Brondi dietro la tastiera), Piromani è un pugno ben assestato, che rimanda alle visioni delle prime Luci (le siringhe disinfettate, le sere a strafarsi, le madonne bulimiche e anoressiche) e soprattutto contiene il verso “E andiamo a vedere le luci della centrale della centrale elettrica! Andiamo a vedere i colori delle ciminiere dall'alto dei nostri elicotteri immaginari, andiamo a dare fuoco ai tramonti e alle macchine parcheggiate male, ad assaltare ancora i cieli e farci sconfiggere e a finire suoi telegiornali, foto in bianco e nero delle nostre facce stravolte sui quotidiani locali andiamo a vedere i canteri delle case popolari dai finestrini dei treni ad alta velocità trasformiamo questa città in un'altra cazzo di città!!!”, urlato letteralmente dietro il microfono da un Vasco Brondi preda anche dal vivo della stessa urgenza disperata che si respira nel disco. Dopo gli alberghi appena costruiti che ostruiscono i tramonti de Le ragazze kamikaze, c’è il tempo per 40 km, storia perduta e vagabonda tra il Messico, Ferrara e la Luna. Delicata e visionaria al punto giusto.
Sembrerebbe finita, ma a gran voce la Centrale Elettrica torna sul palco per 4 bis: L’amore ai tempi dei licenziamenti dei metalmeccanici, Quando tornerai dall’estero, con Vasco Brondi questa volta saldo abbracciato alla sua chitarra acustica, così come nella successiva Per combattere l’acne, forse il suo pezzo più bello, brano che confonde amore, solitudine, memoria, tossicodipendenza, rabbia, disperazione e speranza e quel verso “siamo l’esercito del SERT*”, che per tornare al discorso del citazionismo deformato, riesce a rovesciare clamorosamente e genialmente il celebre ritornello della canzone anni ’60, con un retrogusto quasi affranto. (*Servizio per le Tossicodipendenze”) L’ultimo tassello è per I destini generali, singolo di lancio di Costellazioni, e che anche dal vivo suona forte (ma non irresistibile) tra loop di chitarre in delay e drumming incalzante, e l’immagine della “luminosa natura morta/ con ragazza al computer”, e quella “poverissima patria” presa in prestito (e anche qui riadattata e ricollocata) da Battiato, confermano il talento di questo cantautore, fuori dagli schemi. Vasco Brondi conclude saltando come un folletto impazzito e gridando anche stonato (ma non importa!) il motivo finale della canzone, e con lui tutto il suo pubblico, coinvolto e stravolto da questo ragazzotto emiliano salito alla ribalta con un demo-tape registrato in casa, e che si porta appresso nelle sue canzoni, le sue storie sparse tra la sua provincia emiliana, con quella Centrale sullo sfondo, e le stelle. Quindi eccolo per i saluti e gli inchini al centro del palco, dopo aver ringraziato e presentato i suoi musicisti (Ettore Bianconi - elettronica e moog, Sebastiano De Gennaro - percussioni, Andrea Faccioli - chitarre elettriche e chitarre acustiche, e Daniela Savoldi - violoncello), sudato fradicio di sudore e “felice da fare schifo”.
Per questa sera il concerto e la “festa senza senso” sono finiti. Si va tutti a casa nella notte illuminata dalle Luci della Centrale Elettrica.
Articolo del
20/04/2014 -
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