|
Serata dedicata – una volta tanto! - a “quella strana, vecchia America”, per mutuare il titolo di un vecchio fortunato saggio di Greil Marcus. E’ un filone, quello dell’Americana, che a Roma (si dice) “tira” poco, nonostante i tentativi di diffusione operati negli anni dal Big Mama e da un manipolo di ferventi appassionati, quindi ben vengano queste serate a tema in cui per circa quattro ore sono chiamati a esibirsi alcuni artisti italiani di tutto rispetto e un peso massimo del calibro di Dan Stuart (per chi non lo sapesse: ex leader dei seminali Green On Red, una delle più importanti e amate band degli anni Ottanta).
Fuori in giardino si spulciano le bancarelle dei venditori di vinile d’antan e si fanno PR bevendo birra e cocktail col sottofondo del dj set dell’ottimo Gianluca Polverari; ma intanto, all’interno, fin dalle 20 circa, è possibile ascoltare in (forse troppo) rapida rassegna alcuni dei più interessanti followers italici del sound a stelle e strisce. Si parte con i Rawstars di Francesco Lucarelli, chitarrista romano dedito al recupero delle sonorità West Coast alla Crosby Stills & Nash e America: un’operazione effettuata con grande perizia, considerando peraltro che lo stesso Graham Nash ha partecipato con armonica e voce al recente disco solista di Lucarelli. Attualmente i Rawstars stanno registrando il loro album di debutto e il consiglio è di seguirli con attenzione perché potrebbero riservare qualche (piacevole) sorpresa. Di seguito sul palco è il turno di Filippo Gatti (ex Elettrojoyce e al momento tra i collaboratori di Riccardo Sinigallia) che delizia il pubblico (scarso, per la verità) con un set acustico voce/chitarra fatto essenzialmente da cover di David Crosby - particolarmente sentita Almost Cut My Hair, che, rivela l’artista capitolino, fu la primissima canzone che suonò dal vivo in un concertino al suo vecchio liceo – per finire con un’escursione nel repertorio solista e degli Elettrojoyce. Una chiacchierata post-concerto con Gatti (che sta per partire alla volta di Mosca per un estemporaneo festival di artisti italiani) ci nega la possibilità di vedere gli Elephant Three, emergente band romana che suona una psichedelia di taglio West Coast. Peccato, sarà per un’altra volta. Riusciamo però a cogliere la porzione finale degli sfavillanti Sacri Cuori, quartetto di barbudos alla ZZ Top di origine romagnola ma la cui musica (oscillante tra Nino Rota e i Calexico) possiede oggi un respiro internazionale, grazie anche all’attenzione riservata loro da gente del calibro di Jim Keltner, David Hidalgo dei Los Lobos, Isobel Campbell, di Stephen McCarthy dei Long Ryders e dello stesso John Convertino, che hanno tutti collaborato al loro splendido album del 2012 Rosario. Si tratta di una delle perle italiane di questo decennio, e i Sacri Cuori confermano anche stasera tutto il bene che di loro si dice in giro; strumentalmente, in particolare, sono intoccabili e talmente “desertici” che a non saper nulla penseresti che vengono da Tucson, Arizona, mica dalla "bassa"...
Antonio Gramentieri & Co. sono anche la band di supporto di Dan Stuart, che stasera torna a esibirsi a Roma sette anni dopo un (meno memorabile del previsto) concerto alla Stazione Birra insieme al suo sodale degli anni Ottanta Steve Wynn nella guisa alcolica e caciarona dei Danny & Dusty. Dopo la fine dei Green On Red - va ricordato - Dan Stuart non se la passò affatto bene. Realizzò un paio di dischi solisti alquanto scadenti; poi, in preda a certi demoni e a certe sostanze, scomparve totalmente dalle scene. Si trasferì in Spagna, poi si spostò a New York dove Steve Wynn lo convinse a rimettere in piedi il duo Danny & Dusty per un nuovo album e per un tour che lo portò anche in Italia. Quindi, un nuovo periodo di silenzio e un autoimposto esilio a Oaxaca de Juarez in Messico (dove risiede attualmente), rotto solamente nell’estate del 2012 con l’uscita di un nuovo album solista, il pregevole The Deliverance Of Marlow Billings (a cui hanno collaborato anche i Sacri Cuori, laddove Gramentieri è anche co-produttore con Jack Waterson).
Il concerto di stasera, purtroppo, è la conferma che il miglior Dan Stuart ce lo siamo giocato nel ’92, a seguito dello scioglimento dei Green On Red. Durante gli anni Ottanta Stuart fu uno dei pochissimi artisti a trovare una via post-punk al country rock pienamente convincente. Il suo modo di cantare (e di fare il frontman) era pieno di urgenza e straordinariamente coinvolgente: quasi una sorta di Neil Young del dopo-bomba. Anche in seguito, quando a fine anni Ottanta i Green On Red si spostarono su un versante più prettamente rock’n’roll (alla Stones di Exile On Main Street, per intenderci) Stuart, con le sue canzoni e le sue intense liriche, riuscì a fare la differenza: cosicché tutti i dischi della band originaria di Tucson, a partire dall’EP Two Bibles dell’81 fino a Too Much Fun del ’92 sono degni di essere (ri)ascoltati (come anche quel capolavoro country/folk che è The Lost Weekend di Danny & Dusty dell’85) e posti all'attenzione delle nuove generazioni. Stuart - va detto - mette subito le mani avanti: è stanco morto dopo lunghi mesi in tour a cui non è più abituato e non vede l’ora di tornarsene in Messico nel suo mini-ranch; anzi, ancor meglio sarebbe se l’aereo su cui salirà domani mattina sprofondasse nell’oceano, così non dovrà più imbarcarsi in lunghi ed estenuanti tour (!!) L’impressione, fin dall’inizio, è quello di un uomo che va “through the motions” (come dicono dalle sue parti), quasi più anziano della sua effettiva età anagrafica (53 anni). La fiamma, insomma, sembra essersi spenta, e la sua rabbia degli anni Ottanta ormai addomesticata. Ma ciò che più dispiace è che - come si era subodorato dalla reunion di Danny & Dusty - la sua voce non è più la stessa: le “erre” non sono più allungate “neilyounghianamente” come un tempo, Stuart non ulula più alla luna. Nel suo cantato sembra albergare, oggi, solo una pacata rassegnazione.
Danny ci propone un inizio intimistico, in duo con Gramentieri: dapprima l’inedita Little Guitar, quindi una versione ballad di That’s What Dreams dei Green On Red, troppo slow però per rendere giustizia all'imperituro classico tratto da Gas Food And Lodging (1985). Man mano salgono sul palco anche gli altri Sacri Cuori (il bassista Francesco Giampaoli, il batterista Diego Sapignoli e il sassofonista Francesco Valtieri) e i giri iniziano ad aumentare: arrivano Keep On Moving e Jimmy Boy dall’EP No Free Lunch dei GOR (1985), poi – intervallati da due pezzi solisti quali Clean White Sheet (da The Deliverance Of Marlowe Billings) e Home After Dark (dal misconosciuto Can O’ Worms del ’95, recentemente ristampato) - in rapida ripetizione, due pietre miliari dell’epoca Paisley Underground: Sixteen Ways – forse la migliore performance della serata – e Gravity Talks dall’album omonimo dell’83. Stuart & Co. si soffermano anche su quella che fu l’incarnazione finale “stonesiana” dei Green On Red con due brani tratti dal sottovalutato Here Come The Snakes (1988) - Morning Blue e Zombie For Love - e uno da The Killer Inside Me (1987)- We Ain’t Free . Sul palco Stuart ha con sè i Sacri Cuori ma manca invece il Sacro Furore di un tempo; non desta pertanto meraviglia che il buon Danny oggi dia il suo meglio soprattutto quando si tratta di cantare delle ballad. Strano, pertanto, che la scaletta sia composta soprattutto da brani dei Green On Red (ma forse no: in fondo è il motivo principale per cui tanti sono venuti a vederlo) e comprenda solo poche selezioni dal recente The Deliverance Of Marlowe Billings a cui la sua voce attuale pare più adeguata. In effetti, ne esegue solo tre brani: oltre alla già citata Clean White Sheet, Can’t Be Found e l'intensissima Gringo Go Home, a cui a nostro avviso insieme a Gonna Change va la palma di migliore canzone di Dan Stuart del nuovo millennio.
Intanto però siamo oltre la mezzanotte e mezza, e Stuart & i Sacri Cuori ci salutano con una versione (impetuosa anzichenò) del classico dei classici dei GOR Hair Of The Dog, con cui il vecchio Danny azzarda per una volta a mettere a repentaglio le sue già sfibrate corde vocali. Niente bis (e delusione non da poco perché la scaletta originaria prevedeva anche Time Ain’t Nothing e la cover di Vicious di Lou Reed): probabilmente Dan Stuart non ne ha più, o magari, dopo svariati mesi di questa esistenza da zingaro, non ne ha proprio più voglia. L’indomani dovrà affrontare una lunga trasvolata da Fiumicino fino a Città del Messico e l’impressione è che con la testa il Gringo sia già lì, rivolto a casa e alla vita più tranquilla che lo attende, anziché al glorioso ma forse doloroso passato che fu, nella polverosa Tucson, con i Green On Red e gli amici Chris Cacavas, Chuck Prophet e Steve Wynn.
No, nonostante l’ottima prova degli accompagnatori Sacri Cuori non si è trattato di un concerto indimenticabile, ma è stato ugualmente un piacere rivedere il buon vecchio Danny Stuart. Uno che ai suoi tempi ha certamente dato molto di più di quanto non abbia ricevuto in cambio (e da qui, forse, tutta quella latente amarezza che si trascina addosso).
SETLIST:
A Little Guitar That’s What Dreams Keep On Moving Clean White Sheet Home After Dark Sixteen Ways Gravity Talks Morning Blue Zombie For Love Jimmy Boy We Ain’t Free Gringo Go Home Can’t Be Found Hair Of The Dog
(La foto di Dan Stuart al Circolo degli Artisti è di MG Umbro)
Articolo del
09/06/2014 -
©2002 - 2025 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|