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Giornata III
Sono le sette di sera. E’ presto ma ho già il battito e i passi accelerati. Alle 19,30, sul palco Sony, i Television inizieranno a suonare tutte le tracce di Marquee Moon. Ed era proprio in un treno notturno, dieci anni fa, durante un viaggio in Spagna, che ascoltavo per la prima volta Venus De Milo immergendomi senza difese nell’oscurità benevola delle prime distanze da casa. Una volta tornata a Roma avrei iniziato subito le mie ricerche sul gruppo di New York entrando in una fase di fascinazione totale per i testi ispirati di Tom Verlaine e la scena punk rock del CBGB.
Pochi passi veloci e raggiungo facilmente le prime posizioni davanti al palco: è una strana sensazione vedere apparire i capelli grigi di Verlaine e pensare che sia proprio lì davanti a te, con la sua voce fina e stridula, ancora con la sua chitarra in mano ‘dal suono dei mille uccelli’ ad evocare un mondo che avevi nascosto come un tesoro nei ricordi migliori dei tuoi diciotto anni. Malgrado qualche problema acustico che interrompe l’inizio del concerto, i quattro sembrano non aver mai smesso di suonare insieme dal lontano 1977. La fantasia e la ricchezza espressiva sono rimaste intatte negli anni come la potenza dei testi di un disco che ancora oggi viene cantato da ragazzi poco più che ventenni. Non ho mai saputo definire cosa ci sia di tanto magnetico nei Television ma averli visti live è stata la conferma che i grandi gruppi ti portano in luoghi dove non sei mai stato, e lo fanno utilizzando tutte le armi a loro disposizione, i testi, l’espressività e il loro amalgama musicale.
Una breve sosta al Ray Ban per ballare un po’ sulle note di Cateano Veloso prima di tornare davanti al Sony a sentire i Volcano Choir. Devo ammettere che nell’attesa dell’hidden show dei Buzzcocks il loro concerto mi trova scalpitante e deconcentrata. Mi sforzo di tornare concentrata: atmosfere azzurrine di nordico folk-rock riempiono il palco con grande generosità. Ma forse stasera i Volcano Choir più che una perla sono un anello di congiunzione: il punto di passaggio perfetto tra la liricità dei Television e il magnetismo elettronico dei Nine Inch Nails. La voce di Justin Vernon s’infiltra nella luce notturna del palco liberando la suggestione giusta ma manca nel collettivo del Wisconsin l’impatto energetico atteso dagli estimatori dell’ultimo Repave. Le mie orecchie apprezzano il silenzio dei dieci minuti che mi portano dal palco Sony all’Heinekein Hidden Stage, nell’altra sezione del parco. Non so esattamente cosa aspettarmi dal gruppo di Love Bites ma sono entusiasta di riuscire a guadagnare la prima fila sotto il palco. Dalle prime sferzate di chitarra di Diggle capisco che mettermi in prima posizione non è stata un’idea assennata. L’aspetto da taglialegna barbuto di Pete Shelley inganna mentre il resto del gruppo è in splendida forma. Il pubblico si fomenta sulle note di What Do I Get tanto che la mia schiena diventerà bersaglio di gomitate e spallate. Ma dopo tutto come mi dice la mia vicina di concerto, conosciuta lì per lì, ‘si tratta di punk-rock, cosa ti aspettavi?’’. Capisco che devo amalgamarmi in fretta allo spirito del live e inizio a saltellare anch’io sulle note di Orgasm Addict per non rischiare di finire per terra o con la schiena rotta. Da Promises a Ever Fallen In Love ogni brano suonato è uno scambio di scosse entusiaste dalla band al pubblico. Gli anni sembrano passati solo sulla pelle ma nella voce e nello spirito la tempra è rimasta immutata.
Finito il concerto dei Buzzcocks l’Heineken Hidden Stage si svuota immediatamente. Siamo agli sgoccioli del Festival e l’attesa per i concerti principali del cartellone è più densa dei giorni precedenti. Ripercorro la strada fatta un’ora fa a ritroso e non senza un pizzico di nostalgia anticipata getto uno sguardo ai palchi nella strada sottostante: L’Adidas Originals si prepara all’arrivo dei Natan Loves You, gruppo lussemburghese electro-pop simil-Phoenix ma non ho tempo di fermarmi ad ascoltare nemmeno una canzone e continuo a camminare. La direzione della folla non è unidirezionale: i Mogwai e l’etnicità fragrante dei Blood Orange si contendono quel che rimane dei seguaci di Reznor & co. Arrivo sotto il palco del Sony venti minuti prima dell’inizio del concerto dei Nine inch Nails. I fan più incalliti sono rimasti sotto il palco dal primo concerto del programma (i Mishima). E’ la prima volta che sento la band dal vivo che non suona in Spagna dal 2009. Dopo una breve intro si inizia senza mezze misure con Me, I’m Not, ballata dub, ottusa e sintetica che ci predispone alle flebo adrenaliniche di Sanctified e Copy Of A. E per lo più senza rendercene conto siamo immersi fino al collo nelle inquietudini di Trent Reznor, che per due ore diventeranno anche le nostre. Il paesaggio sonoro è freddo e ammaliante allo stesso tempo: si entra con facilità in chiave notturno-licantropa con ritmiche serrate, nette come la scissione tra bianco e nero suscitata da The Day The World Went Away o tra il sacro e il profano di Closer. La carica energetica sprigionata da Trent Reznor è fisica e reale. Dopo l’aggressività la quiete arriva all’improvviso a suggellare la fine del concerto. Hurt (unico pezzo lento di tutto il concerto) ci lascia quasi commossi.
Dopo l’industrial serioso dei Nine Inch Nails, tuffarsi nel Garage scanzonato dei Black Lips è un po’una scommessa: dopo quattro concerti di fila, le mie orecchie riusciranno a divertirsi sui cori sgangherati del quartetto di Atlanta? Buttiamoci ancora una volta nel bel mezzo della mischia e stiamo a vedere cosa succede. Si comincia con i pezzi del nuovo album Underneath The Rainbow: una Boys In The Wood sguaiata e senza pretese accontenta subito le orecchie altrettanto stordite dei superstiti delle tre di notte in questa ultima serata del Festival. La voce non è chiara, forse troppo sovrastata dal basso slabbrato di Jared Swilley ma l’effetto da festa lisergica di fine classe è assicurato. Quando il gruppo inizia a cantare Bad Kids salti e spinte sono il canto del cigno di tutta l’energia rimasta, e in un attimo, sotto uno dei tanti angoli chiassosi di questo Primavera, succede che il pezzo diventi l’inno liberatorio di fine Festival. Di chi sa di dover tornare a casa anche se proprio non vuole, di chi ricorderà questi tre giorni con la solita nostalgia, scanzonata anche quella, che sennò non verrebbe mai la pena di partire. Sulla via del ritorno mi fermo ad ascoltare i Cut Copy, quel tanto che basta per decidere che sebbene il collettivo australiano e i loro loop caramellosi e taglienti abbiano una presa sonora notevole, per me il Festival quest’anno finisce qui. Mi ha dato molto più di quello che mi aspettavo. Ho visto: la Primavera scoppiare in tutte le sue sfumature multicolori con la padronanza scenica degli Arcade Fire, vecchi sogni scongelarsi nell’ugola leggendaria di Tom Verlaine, sorprese dell’ultima ora, con i suoni morbosi e psichedelici degli Yamantaka – Sonic Titan, le ritmiche solari del carnevale di Caetano Veloso, la magnificenza robotica dei Nine Inch Nails, l’organizzazione esemplare di tutto il Festival sin nei minimi dettagli, il bello di ritrovare amicizie lontane sotto il sole di Barcellona e di vedere la quotidianità sorridere sullo sfondo di una strada tanto bella da non sembrare reale. E poi, il resto lo sapete già. La spiegazione per tutte le cose belle è sempre quella lì: basta volerlo.
Articolo del
11/06/2014 -
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