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Era il 1997 quando tre pazzi dell’Essex si sono consacrati come una delle band fondamentali della loro epoca, incendiando e fondendo attitudine e sonorità punk con quelle rave. Il disco della svolta fu il terzo, The Fat Of The Land, quello che li ha fatti entrare nella storia. Poi è trascorso del tempo, una lunga pausa, con un ritorno segnato da un album flop (Always Outnumbered Never Outgunned) che nel 2004 sembrava aver sancito la fine dei Prodigy. Non fu così. Cinque anni fa è uscito Invaders Must Die, che li ha fatti tornare a calcare i palchi più importanti d’Europa e del mondo, riaccendendo il fuoco nei fan che si stavano dimenticando di loro o che ormai li consideravano finiti e reclutandone di nuovi.
Ovviamente quello che i Prodigy dovevano dire nella musica lo hanno già detto, quindi aspettarsi una nuova rivoluzione sonora da parte loro non avrebbe senso, tuttavia il concerto al Rock In Roma è un’occasione ghiottissima per assaporare l’album che verrà, infatti tra i vari brani proposti in scaletta ci sono diverse anticipazioni inedite. Prima di loro i sudafricani Die Antwoord provano ad accendere anzitempo gli animi con la loro ricetta di techno acida e tossica mista a spunti hip-hop. Da rivedere, probabilmente, la band in un contesto più ristretto può rendere molto meglio e di fatto nemmeno la hit più conosciuta, I Fink U Freeky, fa scattare il cambio di marcia tra i presenti, in trepidante attesa di Liam Howlett e soci.
Finalmente arriva il momento, i mattatori Keith Flint e Maxim Reality prendono posizione come due centravanti di sfondamento con il fantasista Howlett alle loro spalle e partono subito con un pezzo da 90, Breathe. La ricetta è sempre quella, un’ondata sonora che scatena delle mischie selvagge in cui succede e vola di tutto in mezzo al pubblico. Sound massiccio favorito anche dall’ormai consolidatissimo innesto di Leo Crabtree alla batteria e Rob Holliday alla chitarra. Keith e Maxim cantano e aizzano il folto pubblico, che risponde “presente” scatenando un vero e proprio inferno in terra. Peccato che la terra, o meglio la polvere che inevitabilmente si alza, renda l’aria irrespirabile nel raggio delle prime 10-15 file, una pavimentazione con dei pannelli sarebbe salutare.
Arrivato al mio quarto concerto dei Prodigy, posso affermare che la band ha trovato la quadra per garantirsi un futuro prospero, con mestieranza e grande consapevolezza sia di quello che possono offrire che di quello che il loro pubblico vuole. Tra i vari pezzi nuovi proposti nel live romano sembrerebbe che il filone genuinamente autoreferenziale che aveva sancito il successo di Invaders Must Die proseguirà anche nel prossimo lavoro. Le nuove tracce sono sapientemente infilate tra classici intramontabili, come nel caso di Jetfighter, che succede Breathe e anticipa Voodoo People. Le versioni sono ancora poco più che embrionali, non ci sono voli pindarici, anzi c’è molta coesione e coerenza con i vecchi brani. Se si ascolta con attenzione si possono cogliere le sfumature stilistiche che Liam “Master H” Howlett, sempre e comunque “sul pezzo” ed al passo coi tempi, applica alla “ricetta Prodigy”, che però fondamentalmente rimane ancorata a quello che fu l’apice raggiunto e difficilmente eguagliabile alla fine degli anni 90. Niente più esperimenti, la forza di questa band sta nel saper essere la colonna sonora del caos, Rock Weiler ne è l’ennesima prova, la maggior parte dei presenti non la conosce, ma il pogo è uguale a quello che si scatena durante i cavalli di battaglia. Considerando la partenza a razzo e la rabbia sonora espressa, un pezzo come Poison risulta quasi come una ballata per permettere di riprendere fiato, il che è tutto dire.
Ma la pace dura poco, perché Thunder (in versione dubstep) e la nuova AWOL sono solo il preludio ad una nuova tempesta, che si abbatte sui presenti assumendo la forma della hit Firestarter e della tumultuosa Run With The Wolves. La successiva Spitfast sembra uno strano mash-up di pezzi già editi e riassemblati con sopra il “testo” di Spitfire, infatti anche il titolo simile lascerebbe presupporre che si tratti di una nuova versione dell’unico brano salvato da Always Outnumbered Never Outgunned, piuttosto che di una novità. Il reprise di Omen è il momento di Liam Howlett, il genio alla base del sound della band, che si prende la sua meritata dose di applausi prima di lanciare il rush finale, con Invaders Must Die e Smack My Bitch Up.
Come tradizione vuole, sull’interludio “soft” all’interno del brano, Maxim invita i presenti ad accovacciarsi per poi saltare all’unisono con la violenta ripartenza del pezzo. Un semplice ed addirittura mimato “Sit down”… Peccato che la conoscenza della lingua inglese di molti dei presenti sotto palco non sia sufficiente per capirlo, quindi ci vuole un po’ prima che il vocalist britannico ottenga l’effetto sperato.
La scelta dei bis ha qualcosa di emblematico, si aprono con Take Me To The Hospital, il pezzo simbolo del nuovo corso, seguita dalla pietra miliare Their Law, estratta da Music For The Jilted Generation ed infine la chicca che non ti aspetti. Non arriva infatti la “solita” Out Of Space, bensì Hyperspeed, estratta sempre dal primo album, Experience. Nonostante sia un pezzo del 1991, adeguatamente rispolverato e tirato a lucido, suona ancora moderno e di impatto, a sancire definitivamente come i Prodigy siano riusciti a diventare padroni del loro tempo e che forse non riusciranno più a “stare avanti”, ma sicuramente non saranno mai “superati”.
Articolo del
27/06/2014 -
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