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Prendetelo come un consiglio spassionato e senza secondi fini. Che siate metallari vecchio stampo e tradizionalisti senza tante menate, thrasher della più sudicia specie, colti doomster col pallino del riff dilatato e lisergico, o che abbiate consacrato la vostra esistenza al lato oscuro del metal ; oppure, o forse soprattutto, se metallari non ci siete e non vi sentite affatto, e vi interrogate, scettici e vagamente intimoriti, su cosa passi mai nella testa (per lo più capelluta, ma non mancano le eccezioni) di quegli strani esseri dalle T-shirt impresentabili, che ascoltano musica fragorosa che ai vostri leziosi padiglioni auricolari suona più o meno come un rituale orgiastico a base di blast beat e chitarroni distorti fino all’insostenibile. A tutti voi, dunque: lo so che c’è la crisi e che la spedizione a Nantes/Clisson non è esattamente come andare ad ascoltare l’orchestrina degli amici al bar sotto casa, ma fatevi un regalo, mettetevi una mano sul cuore e l’altra sul portafoglio, e andate all’Hellfest. Se già siete arruolati e operativi nell’armata del metallo pesante, è fuori discussione che, su un’impressionante line-up di oltre 150 band distribuite su 6 palchi e 3 giorni di concertone non-stop dalle 10 del mattino alle 2 di notte, qualcosa di vostro gradimento lo troverete anche senza degnare di uno sguardo il programma. Come d’altronde ho fatto io, che, in sonnacchiosa attesa della navetta (conveniente e comodissima) che dalla stazione ferroviaria di Clisson conduce direttamente ai cancelli del festival, non ho ancora ben chiaro in testa se sto dilapidando buona parte del mio budget-ferie per imperituro amore dei Black Sabbath, degli Emperor, dei Behemoth, dei Dark Angel, o va a sapere di chi altro ancora. Se invece fate ancora parte dei profani, prendete questa full immersion come un’opportunità per iniziare a capire cos’è veramente il metal, cosa invece non lo è e cosa, per grazia ricevuta, non lo sarà mai (qualcuno ha detto Vasco?).
L’organizzatore Ben Barbaud verrà probabilmente venerato al pari degli artisti che è riuscito a convogliare a Clisson dopo questa mastodontica edizione, e siamo in spasmodica attesa di vedere cosa si inventerà per il decennale nel 2015. Nel frattempo, giù il cappello davanti a questa colossale Disneyland del metal immersa nel bucolico scenario tutto verdi colline e vigneti della Val de Moine. Mentre mi aggiro sgranando gli occhi come Alice Nel Paese Delle Meraviglie in questo spumeggiare di Metal-Camping, Metal-Shops, Metal-Qualunque cosa riusciate a immaginarvi, mi faccio un appunto mentale di menzionare almeno qualcuna delle improbabili mise scelte dai partecipanti per farsi notare ed essere, per così dire, parte attiva dello spettacolo. Da Biancaneve ai monaci cistercensi, da Cicciolina al Pachidolce Batuffoloide, fino all’impagabile duo Gesù-Barabba, i cosplayer a questo giro si sono letteralmente scatenati.
I due giorni di festival già scivolati via (che hanno visto la partecipazione, tra gli altri, di mostri sacri come Iron Maiden, Deep Purple e Slayer) hanno evidentemente lasciato il segno sui partecipanti, che in tarda mattinata si aggirano in numero ancora relativamente esiguo, al punto che è ancora possibile abbeverarsi e girovagare senza dover lottare fisicamente per farsi largo tra la folla. Io, che avendo trovato solo i biglietti per il terzo e ultimo giorno non ho sulla groppa le fatiche dei trascorsi, ne approfitto per curiosare tra le band cosiddette “minori”, considerate tali spesso solo per convenzione, e che nulla hanno da invidiare ai “grandi” della scena. Il consiglio è sempre di mantenere qualche riserva di energia da dedicare agli emergenti, che spesso riservano delle gran belle sorprese. E qui non si può dire che manchino: prendiamo ad esempio gli Scorpion Child, giovanissimi ma il cui motto potrebbe tranquillamente essere “Dai 70s con furore”, con il loro hard rock tarantolato, vintage e vagamente psichedelico che apre le danze nella maniera migliore possibile. Una scoperta, almeno per me, sono i francesi Lofofora, agguerriti e politicizzati, un vero tsunami che si abbatte sul main stage. Superlativa, e all’altezza delle aspettative stellari su di loro, anche la prova degli svedesi In Solitude, tra i più penalizzati dalla scaletta tiranna e da un orario, mezzogiorno inoltrato, che certo stride in qualche misura con la forte carica crepuscolare e occulta della loro musica. Al netto della collocazione infelice, la compagine dei fratelli Åhman lascia il segno grazie a un arsenale di riff di granitica scuola sabbathiana e testi e melodie difficili da definire, ma di certo molto, ma molto più oscuri di larga parte del black metal contemporaneo, che si tratti del Groove intossicante di Sister o dell’intensità mostruosa di A Buried Sun. Toccante l’esecuzione, a sorpresa, di He Comes: come si scoprirà in seguito, una dedica di compleanno per l’amico Selim Lemouchi, geniale chitarrista dei The Devil’s Blood, scomparso prematuramente alcuni mesi fa.
La temperatura inizia ad alzarsi per quella che sarà ricordata come una delle edizioni più ustionanti ed assolate dell’Hellfest, ma il corpulento frontman dei Powerwolf Attila Dorn non sembra darsene per inteso e, spalleggiato dall’altrettanto scenografico tastierista Falk Maria Schlegel, incita instancabilmente il pubblico a urlare di più, a muoversi di più, e in buona sostanza a mostrare gli attributi che si richiedono per prendere parte a un Hellfest. A onor del vero va detto che gli spettatori non prendono alla leggera la cosa e, durante l’esecuzione di una travolgente We Drink Your Blood, a bordo palco arriva letteralmente di tutto, ovviamente tramite crowd surfing: bandiere, caraffe, esseri umani di tutte le stazze e di tutte le fogge, e una varietà di animali gonfiabili da piscina da far impallidire il National Geographic. L’afflusso di alligatori, balenottere et similia viene evidentemente e fortunatamente interpretato dallo staff come un accorato mayday, e l’esibizione degli Alter Bridge viene benedetta e rinfrescata da abbondanti innaffiate elargite dai pompieri al sempre più accalorato pubblico. I sempre bravi Myles Kennedy e Mark Tremonti, per quanto assorbiti dagli impegni con i rispettivi progetti paralleli e solisti, non dimenticano certo di essere l’anima di una delle rock band più in vista del panorama internazionale, e fanno cantare tutta l’arena con molti dei successi che li hanno consacrati in questi anni, da Come To Life a Ties That Bind, a Blackbird, Rise Today e Isolation.
In pieno revival mode anche gli eterni Annihilator, guidati dal carismatico Jeff Waters, che sfoderano i grandi classici dei loro anni d’oro, come Alison Hell, Phantasmagoria, e Human Insecticide, all’insegna di un thrash metal tecnico e di livello, sì, ma genuino e carico di energia positiva.
Le ombre della sera iniziano ad allungarsi, e, tra un’incursione e l’altra fra il palco Altar e il Temple, durante le quali intercettiamo ora l’esibizione potente e tenebrosa degli Unleashed, ora quella più atmosferica e suggestiva dei Sòlstafir, si avvicina il momento dei “big” della serata, a cominciare dai mitici Dark Angel. I redivivi Dark Angel sono stati la sorpresa dell’ultimo minuto nella line-up, essendo stati inseriti in zona Cesarini per via di un lutto familiare che ha colpito Dave Ellefson dei Megadeth, che comprensibilmente non hanno potuto partecipare. Bravo Ron Rinehart che non dimentica di menzionare il bassista dei Megadeth, dando prova di una semplicità e di un calore umano che in qualche modo traspaiono anche dalla sua esibizione. Non solo perché cerca di prodigarsi (con scarsi risultati) in soccorso dei boccheggianti spettatori delle ormai pressatissime prime file; ha un modo di fare umile e down-to-earth, per dirla all’anglosassone, che è un piacere guardarlo. Non si è montato la testa (il girovita, quello invece si è espanso a dismisura, ma si sa, è inevitabile). E ciononostante spacca, spacca che è qualcosa di indescrivibile. Per tacere di Gene Hoglan, un B52 dietro le pelli. La setlist, cosa ve lo dico a fare, è di quelle da autodecapitarsi a forza di headbanging. O da commuoversi, per i più nostalgici. Dipende dai punti di vista e dai caratteri. Nel dubbio, opto per entrambe le soluzioni e mi godo in successione che a me sembra troppo rapida Darkness Descend, We Have Arrived, The Burning of Sodom, Time Does Not Heal, No One Answers, Never To Rise Again, Death Is Certain (Life Is Not), Merciless Death e Perish In Flames.
Ma è già ora di tornare a sgomitare per guadagnare un posto in prima fila al mainstage 2, dove nel frattempo è giunto il turno degli immensi Behemoth, di recente transitati anche a Bologna. La corazzata di Nergal, Seth, Orion e Inferno sul palco non si fa mancare nulla, dalle fiamme libere ad libitum alle maschere demoniache che vediamo spesso utilizzate anche nei loro video. La liturgia macabra prende il via con Blow Your Trumpets Gabriel, primo estratto dal nuovo album The Satanist, ad oggi indiscutibilmente una delle migliori release del 2014. Ma poi ampio spazio viene lasciato alla retrospettiva sulla gloriosa carriera dei Behemoth,e allora via ai grandi classici come Conquer All, As Above, So Below, Ov Fire And The Void, At The Left Hand Ov God. La performance di Nergal è più che mai magnetica e sopra le righe. La malattia che tanto ha fatto temere per la sua vita è ormai un lontano ricordo e il maestro di cerimonie polacco, forte della sua discesa agli inferi e ritorno, può ormai essere considerato alla stregua di un semidio per quanto riguarda il pubblico metal. Imponente quanto inquietante anche la presenza scenica del nerboruto Orion, che con il suo basso scandisce brani monumentali, complessi, dalle evoluzioni imprevedibili, e tuttavia folgoranti per quanto riguarda velocità e veemenza. Un diluvio di coriandoli cinerei introduce al gran finale, e il cerchio si chiude con quello che è già avviato a diventare uno dei nuovi inni della band, O Father, O Satan, O Sun. Troppo enfatici e appariscenti? Passatemi il termine: chissenefrega. Questa è una grande band, ed è così che si fa un concerto.
Se è per quello, nessuno deve insegnare nulla nemmeno agli Emperor. Dal 1991 ad oggi, è passato più metallo per le mani di Ihsahn, Samoth e Faust (quest’ultimo non nella formazione originale, ma in sostituzione di Trym alla batteria) che nella fucina di Efesto in persona. Certo, hanno smesso il corpse paint e Ihsahn ha l’aria di un programmatore di computer un po’ nerd; ma portiamo rispetto e non dimentichiamoci di chi abbiamo davanti, ovvero coloro che 20 anni fa, sbarbati tardoadolescenti, tiravano fuori dal cilindro un disco destinato a fare il paio con De Mysteriis Dom Sathanas dei contemporanei Mayhem per quanto riguarda la maligna genesi del genere black metal. Il capolavoro degli Emperor in particolare getta le basi per la corrente sinfonica e classicheggiante del black, ed è quel In The Nightside Eclipse che questa sera, giustamente vista l’importante ricorrenza del ventennale dall’uscita, eseguono – magistralmente, come ci si aspetta - pressoché per intero, con immensa goduria dei presenti. La performance degli Imperatori è memorabile, i riff di Samoth sono lampi nelle tenebre e i brani … Beh, quelli li conosciamo e sono uno più bello dell’altro, dall’evocativa Beyond The Great Vast Forest, alla magniloquente Towards The Pantheon, la costruzione selvaggia e delirante di The Majesty Of The Nightsky fino a una fenomenale I Am The Black Wizards, un pezzo che ha segnato la storia di tutto il metal, black o di qualsivoglia colore. C’è il tempo ancora per due pesi massimi, crudi e laceranti come l’originario black metal del Grande Nord sapeva essere, e cioè Ancient Queen e Wrath Of The Tyrant, che rendono la serata ancora più memorabile di quanto già non fosse.
E qui arrivano i problemi: cosa si può dire sui Black Sabbath, nel contesto del report di un festival metal, che non sia scontato e già detto? Come li si può definire senza suonare disperatamente banali e ripetitivi? Mostri? Giganti? Dei? Non lo so, mi arrendo. Tutto quello che so è che Ozzy Osbourne (con tutto quello che ne consegue), Tony Iommi e Geezer Butler sono con me dal giorno lontano e senza ritorno in cui sono rimasta folgorata sulla via del metal. Sono come degli zii un po’ matti a cui però sono irrimediabilmente devota. E sono il motivo per cui 139.000 persone hanno pagato il biglietto per essere qui in questi tre giorni. Perché senza di loro non ci sarebbe stato nulla di tutto questo. Tommy Clufetos è un innesto relativamente recente, ma ciò che fa con quella batteria ha del miracoloso (vedi devastante assolo a introduzione di Rat Salad, ormai diventato la sua “firma” sul palco, e di sicuro molto, molto più divertente e dinamico e meno sfiancante per il pubblico di altri, seppur tecnicamente pregevoli). Ha tutto il diritto di stare su quel palco insieme a chi ha scritto la storia. Perché sì, può capitare, com’è capitato in altre occasioni, che il suono non sia perfetto o che Ozzy abbia le batterie scariche; ma i Black Sabbath non si vanno a vedere perché si cerca la perfezione del canone o il tecnicismo del singolo, li si va a vedere perché si ha l’implacabile certezza di credere in qualcosa, e si è lì per celebrarla. Crederci, è questo il punto: questi sono in giro da tanti di quegli anni che ogni volta ti aspetti che non ce la facciano più, e puntualmente ti trovi di fronte quattro mattatori che ti mandano a casa con la gola in fiamme, le gambe e la schiena distrutte, il cuor contento e la testolina leggera e frizzantina martellata da un buon paio d’ore di quei riff schizoidi e mortiferi, unici al mondo ed inconfondibili, griffati Iommi e imitati da tutto il mondo e in tutte le epoche del Dopo-Sabbath. War Pigs, introdotta dalle sirene antiaeree che ormai abbiamo imparato a conoscere, ne è un esempio calzante. Tecnicamente parlando, sul fatto che Ozzman non sia il vocalist più impeccabile in circolazione ormai ci siamo messi l’anima in pace. Diciamo che se la gioca sulla simpatia, gigioneggia col pubblico, scherza, ma sa dare spettacolo come pochi. Del resto, puoi permetterti di lasciarti un po’ andare, se hai la fortuna di avere a fianco un Tony Iommi che, a dispetto dei malanni con cui fa i conti da tempo, come prende in mano una chitarra la fa parlare, cantare, urlare, piangere e ridere al tempo stesso, e un Butler il cui grandioso basso sembra riempire e far vibrare ogni angolo dello spazio cosmico. E’ in particolare il superbo lavoro di Geezer a dilatare ancora di più i già interplanetari riff portanti di Into The Void e Snowblind. Segue un’incursione nella storia recente con Age Of Reason tratta dal discusso e altalenante 13, ma l’esecuzione live aggiunge inevitabilmente qualcosa all’appeal del brano; lo stesso vale per God Is Dead? , presentata più avanti, verso la fine del concerto, che pure presenta i suoi limiti nell’essere forse un po’ troppo derivativa e ambiziosa. Ma fermi tutti, ce n’è di storia da raccontare prima di arrivare a quel punto. Tuoni e funerei rintocchi di campana annunciano infatti l’arrivo di quella che non si può che definire la canzone più monumentale e influente della musica delle tenebre: stiamo parlando, ovviamente, di Black Sabbath. Eccolo lì, il riff malefico, primordiale, con cui ogni musicista che voglia fare i conti con il lato oscuro dell’arte deve necessariamente confrontarsi. L’incalzante cavalcata finale scatena il delirio tra il pubblico, e non è finita, perché sempre dal leggendario album eponimo arrivano Behind The Wall Of Sleep e N.I.B., e poi Fairies Wear Boots. Dopo il break di Rat Salad la marcia trionfale continua con Iron Man, e qui Ozzy e soci potrebbero anche lanciare l’intro e lasciar fare al pubblico, tanto ormai tutti stanno cantando a squarciagola anche le parti strumentali. God Is Dead? introduce alla conclusione, che non delude, è l’epica Children Of The Grave. Ma non si può concludere senza la sfrenata, mitica Paranoid e qui la partecipazione e il coinvolgimento vanno davvero oltre quello che è umanamente descrivibile, è un parossismo, un’esasperazione di adorazione. E qui, scusate, ma qualcuno se lo sarà pure chiesto a questo punto. Sono una fangirl esagitata, e mi comporto come tale? Ahimè, sì. Da circa vent’anni. E la cosa esilarante in tutto questo, è che i miei idoli non sono né belli né palestrati né fascinosi. E men che meno giovani. Sanno suonare, però. Maledettamente bene, per giunta. In questi tempi di talent show e Autotune non è poca cosa. E allora che ci importa, mi dico. Siamo a pochi metri da una delle più grandi band del mondo, la più grande, per quanto mi riguarda. E allora godiamocela. Mi sgolo, sollevo crowdsurfers e (forse) la pianto di farmi domande.
Ci si vede all’Hellfest, metallari che non siete altro.
Articolo del
04/07/2014 -
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