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Le due discese degli Spidergawd non prevedevano una nella Capitale. Per una serie di ragioni, con le quali non vi tedieremo, anche il pubblico romano ha finalmente avuto la possibilità di vedere in azione questa costola dei Motorpsycho con all’attivo molti concerti e due album (un terzo, dalla copertina molto promettente, è in progettazione).
Sono le 22.45 quando in totale silenzio e di fronte pochissimi adepti la band guadagna il palco. Batteria Ludwig, doppia cassa, al centro del palco e in avanti rispetto alla classica posizione arretrata. A destra un’asta da microfono attende il chitarrista Per Borten affiancato, al lato opposto, da Rolf Martin Snustad. Dietro a tutto, come un bodyguard navigato, si staglia la figura di Bent Saether instancabile propulsore ritmico dei Motorpsycho.
Questa nuova creatura, forte di una spinta pari a quella di un Boeing 757, deve molto al lavoro del drummer Kenneth Kepstad, inarrestabile cingolato capace anche di fini tocchi levigati. Il suo drumming è impossibile da contenere, accelera e rallenta tagliando le melodie attraverso tempi complessi. I pattern serrati sono continuamente sferzati da un gioco policromatico di crash e ride, stacchi e riprese incalzate da Bent attraverso riff obliqui e ottime armonie intarsiate dal suo Music Man. Ogni brano è dotato di un intenso crescendo (Is All She Says), gli assoli arrivano quasi inaspettatamente lasciando spazi agli intagli del sassofono acido. Le sezioni psicotrope, presenti su disco, s’amplificano arricchendosi di nuove dilatazioni (Careulean Caribou). Gli arrangiamenti mutano la forma e non la sostanza dei brani eseguiti (Empty Rooms). È la loro dinamicità a lasciare di stucco, non ci sono frontman o superstar sfrontate. Suonano per il gusto di farlo, per l’amore viscerale verso la musica (Fixing To Die Blues). Sebbene lo stile musicale e l’attitudine live peschino pesantemente dai Seventies (Sanctuary, mutuata dai Thin Lizzy) la band ha carattere da vendere e una propria anima, un’essenza viva e sincera che emerge chiaramente in Master Of Disguise. Nessuno scimmiottamento, i quattro cavalieri norvegesi non (s)cadono nella trappola del recupero ma porgono un omaggio a una decade magica e irripetibile da cui prender le mosse per esprimere le proprie virtù evitando invece inutili virtuosismi (Get Physical).
In un’ora e mezza ci avviamo verso il finale, due potenti encore chiudono questo show tanto atteso. A fine serata i nostri sono molto tranquilli nel backstage, trasportano con calma gli strumenti verso il tour bus. Li placchiamo per qualche foto e autografo cercando di tenere a freno la rinomata gestualità italiana. Ringraziamo singolarmente ogni componente assicurandoci, da buoni stalker musicali, di fargli capire che li seguiremo in ogni loro nuovo parto discografico e tour. Bent se la ride con calma serafica, mentre il pilone Kenneth ci ringrazia di essere venuti lasciandoci con un “see you around”. I due nuovi arrivi sono espansivi e pronti a prendersi tutte le attenzioni concesse molto volentieri dai presenti. Cinque minuti di chiacchiere e li lasciamo verso le 2.30. Siamo abbastanza ubriachi con un sorriso ebete e il cervello in giuggiole.
Articolo del
26/05/2015 -
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