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Il dramma dei festival estivi come ogni anno è ricominciato; pochi mesi, e assolutamente troppi concerti da vedere, date che si accavallano, troppi chilometri di distanza, tentativi estremi di convincere amici a partire all’avventura, ma soprattutto serie decisioni da prendere: Bob Dylan al Lucca Summer Festival o Mumford & Sons al Pistoia Blues? Dopo aver tristemente appurato di non avere il dono dell’ubiquità (sigh!), e dopo aver fatto un elenco dei pro e contro, con la morte nel cuore ho rinunciato al mio ottavo concerto di Dylan e ho optato per il primo per la band londinese.
Il loro ultimo tour italiano risale a due anni fa, ossia al loro momento di gloria assoluta, quando l’album 'Babel' li consacrò ambasciatori del folk inglese tra date sold out e riconoscimenti vari. Ora si sa, qualcosa è cambiato, il loro ultimo lavoro ha annunciato la loro svolta verso qualcosa di “altro”, più rock, più cupo, triste, anche più pop a volerla dire tutta. Sembra questo sia frutto di un impellente bisogno espressivo (o come dicono le male lingue, un tentativo neppure troppo azzeccato, di una svolta più commerciale) che il loro precedente pop-folk non poteva più soddisfare. Fatto sta che le tre date italiane sono tutte sold out, o quasi.
La Piazza del Duomo di Pistoia è ormai una sorta di mecca estiva dove recarsi con reverenziale entusiasmo sempre e comunque a prescindere da chi vi si esibisca ed è l’ultima data in terra italica per Marcus Mumford e soci, nonché la serata d’apertura del Pistoia Blues. Stasera però c’è qualcosa di diverso nell’aria: ogni possibile spazio è gremito, l’atmosfera è rovente - vorrei poter dire per il concerto, ma in realtà è solo merito dell’ondata di caldo africano che sta attanagliando la nostra penisola – e soprattutto c’è qualche dubbio. Il primo è mio personale, ma non penso di essere l’unica a porsi simili domande: perché il Pistoia Blues, nonostante l’ottima musica che continua a proporre non sia più blues, continua a chiamarsi così? Ma scusate, sto divagando. Il dubbio che aleggia tra i più è: “ma le canzoni con banjo le faranno ancora?”. Volete la risposta? Sì, le fanno ancora... a volte.
L’inizio del concerto fa ben sperare, fa muovere il pubblico, si accenna quasi un po’ di pogo nella zona centrale, dove notoriamente stanno i più scalmanati, e si canta. Fino qui tutto normale. Si inizia con 'Babel', e non poteva essere altrimenti. Quindi ecco Lover’s Eyes e I Will Wait. Il pubblico tira un sospiro di sollievo, il banjo c’è. E si ci illude, mentre scivolano via Snake Eyes e la titletrack dell’ultimo disco 'Wilder Mind'. Si torna un po’ indietro nel tempo poi con Awake My Soul, Lover Of The Light, Thistle & Weeds, Ghosts That We Knew e poi di nuovo ecco comparire la tristezza di 'Wilder Mind' con il singolo Believe.
Però da questo punto in poi la serata inizia pian piano a scivolare in una lenta spirale di tristezza, che sfocia presto in indifferenza da parte del pubblico, poco coinvolto da quello che sta succedendo sul palco. L’atmosfera che vorrebbe essere più intimista e malinconica, crea invece un divario tra i musicisti e la piazza; si inizia a sentire un chiacchiericcio di sottofondo, qualche lamentela… L’italiano stentato con cui Marcus Mumford porta avanti il concerto, che all’inizio può anche sembrare simpatico, inizia a infastidire. Riprendere le briglie della situazione non è facile, riconquistare un pubblico annoiato e un po’ deluso a questo punto è quasi impossibile. Sfilano allora via con scarsa partecipazione Tompkins Square Park, The Cave, Roll Away Your Stone, Monster, Only, Love, Ditmas, Dust Bowl Dance, Sister e Cold Arms. Un po’ come quando Dylan suonò elettrico al Newport Folk Festival (chiedo venia per il paragone azzardato!) e fu perdonato solo quando tornò sul palco con una chitarra acustica, i Mumford & Sons si sono salvati sul bis finale e non con Hot Gates o The Wolf dal loro ultimo lavoro, ma con un loro classico, Little Lion Man da 'Sight No More'.
Vogliamo veramente tirare le fila della serata? Be', le basi per un bel concerto c’erano indiscutibilmente. A mancare è stata una scaletta studiata per una piazza, per un festival estivo, per coinvolgere il pubblico facendolo scatenare, emozionare e divertire. La magia della musica dal vivo è quella cosa unica che ti fa restare col fiato sospeso, che a fine concerto ti fa pensare che avresti voluto durasse ancora ore, che ti fa scoprire parole e idee che non avevi colto, che ti fa pensare “Wow!”. Quando inizi a guardare l’orologio, quando pensi che hai caldo, sete o che hai dimenticato di stendere i panni che avevi in lavatrice prima di uscire, be', qualcosa non va.
(Si ringrazia per la foto gentilmente concessa: Valentina Ceccatelli)
Articolo del
07/07/2015 -
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