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Alle 22.15 il parcheggio vicino all’Init è semivuoto. Conoscendo bene le abitudini del pubblico romano, avevamo previsto un bagno di sangue stasera. Ne siamo consci ma ci conserviamo ancora un po’ di fiducia presentandoci speranzosi. Intanto sul palco il cantante dei Bast sta emettendo qualche leggerissimo suono gutturale per settare la voce, lo sentiamo da fuori, il tempo di parlare con qualche faccia nota e dal palco arrivano le prime note. Appena dentro il timore diventa realtà, siamo in 30-40 persone al massimo, compresi gli addetti ai lavori. Vergognoso, tanto da sentirci in dovere di scusarci con la band.
I Bast hanno un sound molto pesante e grezzo, la ripetitività, quasi psichedelica, è l’elemento chiave per una corretta lettura di questa heavy band. La loro mezz’ora vive momenti alterni, passaggi non del tutto a fuoco e colpi messi a segno con precisione. L’acustica non li aiuta, la batteria è un motore instancabile che però emerge solo quando le due asce abbassano i volumi durante i momenti più pacati. Per il resto rullante e tom passerebbero del tutto inosservati se non fosse per i veloci movimenti del batterista.
Alle 23.38 la strumentazione dei Pallbearer è pronta, anche silente incute un certo timore. In meno di due minuti i quattro cavalieri della dissonanza sono sul palco. Due-tre colpi di plettro per sincerarsi che sia tutto ok e si comincia sulle note di Worlds Apart, dell’ultimo album. In meno di un minuto buona parte dell’udito si va a unire alla materia oscura, sommandosi agli altri mattoni del muro di acufeni che, prima o poi, ci separerà dal mondo della comunicazione portandoci alla follia. Due chitarre ai lati e basso iper-distorto in avanti, insieme alle pelli nella salda presa di Mark Lierly erogano la spinta propulsiva necessaria per il decollo di questi portatori metallici di bare. Con tre brani superano abbondantemente la mezz’ora, gli effetti sono devastanti, si è in pochi ma l’headbanging è collettivo, una fluttuazione incastonata sulle melodie oblique e dettata dai cambi di tempo trasversali.
I Pallbearer fanno parte di un filone di non semplice memorizzazione. I loro pezzi sono complessi, proteiformi. Le mutazioni sono imprevedibili tanto quanto i repentini cambi di mood. Spingono come un caterpillar a pieni regimi sfoggiando classe e potenza e forgiando (20.000) nuove leghe metalliche. Intanto i continui gesti del chitarrista Brett Campbell indicanti la spia ai suoi piedi che non gli permette (e neanche a noi a esser del tutto sinceri) di sentire la seconda chitarra non sortiscono alcun effetto. Dopo un’ora di richieste Brett smette. Non è dato sapere se sia riuscito nel suo intento di riuscire a sentire Devin Holt nel monitor o più semplicemente si sia arreso per sfinimento.
Dall’alto del palco la band domina la serata con una serie di sferzate acide, la distorsione ispessisce il già corposo sound prodotto dalle due asce in costante conflitto e perenne mutazione. L’arrivo della temibile Fear And Fury è accolta da un piccolo boato, considerato il numero dei presenti, ma che si fa sentire davvero bene. I nostri sorridono consci di aver toccato un nervo scoperto. Stimolarlo però provoca piacere e non dolore. Prima della fine del set i ragazzi lasciano tutti gli strumenti in feedback, segno che non è ancora finita.
Chiude The Legend, scelta migliore non potevano farla, sia per l’auspicio contenuto nel titolo che per l’esecuzione di questo pachiderma introdotto dal sinuoso basso, qualcosa di mefistofelico immediatamente raddoppiato dai riff delle chitarre e dall’andamento lento ma inarrestabile. Sound maestoso e voce impastata dalla birra fanno il resto, risultato garantito, effetto devastante.
SETLIST:
Worlds Apart Devoid Of Redemption The Ghost I Used To Be Watcher In The Dark Fear And Fury Foreigner
Encore: The Legend
Articolo del
13/07/2015 -
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