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Sarò onesta: difficilmente credevo che si potesse eguagliare l'esordio dello scorso anno, segnato da artisti del calibro di The National, Mogwai e John Grant, che hanno a dir poco conquistato l'anima e segnato per sempre le vite di tutti i presenti (chi c'era può confermarlo). Perché, si sa, il "secondo" - album, libro, film e, perché no, anche festival - è sempre il più difficile. Quest'anno, infatti, il rischio di deludere le aspettative di un pubblico dimostratosi fin dalla prima edizione esperto e molto esigente era molto alto. L'agenzia fondata da Pietro Fuccio ha, però, saputo smentire quest'assurda retorica e dare vita ad un Siren Festival "bis" che ha rasentato la perfezione e messo a tacere qualsiasi detrattore. Ma andiamo per ordine.
PRIMO GIORNO
Camminando lungo via Adriatica, mentre mi dirigo verso Porta San Pietro, incontro Mark Kozelek e Steve Shelley e mi fermo a fare due parole. È noto il livore del cantante statunitense per le interviste vis-à-vis, "Preferisco fare due chiacchere tranquillamente, odio le interviste formali", sottolinea, quindi evito di tampinarlo di domande. Sembra di buon umore l'ex Red House Painters e, stranamente, non disdegna di farsi fotografare (come non approfittare?) mentre anticipa che sta lavorando a nuove canzoni. Ma tempus fugit, perciò saluto il duo delle meraviglie e corro da IOSONOUNCANE. Sono le 19.10 e il cantautore sardo, ormai trapiantato a Bologna, comincia ad eseguire buona parte di 'Die', la sua ultima fatica, senza risparmiare voce ed emotività - indubbiamente alle stelle - destreggiandosi tra il sintetizzatore e il computer, senza un attimo di sosta. Tanca e Carne, due tra i suoi pezzi più noti, coinvolgono visibilmente il pubblico, accorso un po' per pura curiosità, un po' per conoscenza diretta dell'artista.
Sono le 20.17 e Elizabeth Bernholz (aka Gazelle Twin) vestita di blu, incappucciata e con lo sguardo coperto da un velo color carne - come a voler sottolineare la rinuncia totale ad un contatto reale col pubblico - si dimena sul palco di Piazza del Popolo, intonando urla agghiaccianti sui bassi elettronici. Ricorda lo stile di Fever Ray, la performer britannica, anche se la sua musica è più inquietante, alienante e, indubbiamente, unica nel suo genere.
In scaletta ci sono finalmente i Sun Kil Moon e, in massa, ci spostiamo tutti verso il Cortile di Palazzo D'Avalos. Aspetto da tempo immemore questo momento e provo quella strana ansia da pre-concerto che solo pochi artisti mi riescono a suscitare. Finalmente l'imperscrutabile frontman arriva sul palco, accompagnato dal fedele Shelley e dal resto della band, fin da subito accolti dal calore dei presenti. Prima di dare via al live, come sempre è solito fare, il Nostro chiede di fare silenzio, rituale che ripeterà con insistenza prima di ogni inizio brano, quasi come un mantra. I Can't Live Without My Mother's Love, Carissa, Richard Ramirez Died Today Of Natural Causes e la dedica a Nick Cave con la cover di The Weeping Song (il figlio adolescente di Cave è scomparso tragicamente due settimane fa) rappresentano senza dubbio i momenti più alti dello show. Tutto il pubblico è incantato, in una sorta di ipnosi collettiva, dalla presenza scenica di Kozelek, che sembra quasi un direttore d'orchestra quando agita le mani per incitare tutti a cantare il refrain di Caroline. I tempi si dilatano, le canzoni vengono tirate fino all'impossibile, fino a farci perdere qualsiasi coordinata o concezione del tempo e dello spazio e, prima che ce ne si possa accorgere, il live giunge al termine, con un Kozelek - ormai più rilassato - che chiede una sigaretta prima di intonare This Is My First Day And I'm Indian And I Work At A Gas Station.
Non appena finito il concerto dei Sun Kil Moon, ancora storditi, ci dirigiamo verso Piazza del Popolo e arriviamo con il live dei Verdena iniziato da pochi secondi. La piazza è gremita, il fan più sfegatati urlano già a squarciagola sulle note di Alieni fra di noi, primo pezzo in scaletta. Mentre noto nonostante la posizione vicina al mixer un'acustica leggermente deficitaria, vedo muoversi da lontano il ciuffo di Roberta Sammarelli, bassista della band, che salta e si dimena nel suo headbanging, esattamente come otto anni fa, quando vidi il mio primo live del gruppo proprio qui nella cittadina abruzzese, in occasione del loro "Requiem Tour". Impossibile non constatare la grande crescita che ha caratterizzato in questi anni il trio bergamasco: album acclamati dalla critica, sold out in tutta Italia e un seguito sempre più numeroso. Il concerto, nel frattempo, scivola via senza intoppi, tra pezzi più recenti (Un po' esageri, Sci Desertico, Scegli me, Derek) - che personalmente preferisco - e altri tratti dai primi lavori (Muori Delay, Nevischio, Don Calisto), ormai però privi dell'ingenuità degli esordi e intrisi, invece, di una maggiore consapevolezza e sorretti da un solido impianto ritmico. Suonano a volumi altissimi, i Verdena, e regalano un live maestoso, potente, intriso di quella selvatichezza che da sempre li contraddistingue, nonostante la voce di Alberto Ferrari sia spesso sovrastata dagli strumenti e le liriche vengano assorbite dalle distorsioni di chitarra/basso (particolare rimasto immutato rispetto al precedente concerto vastese). Noto Kozelek da solo, leggermente defilato dal pubblico, concentrato ad ascoltare la band bergamasca e non posso fare a meno di avvicinarmi (rischiando che questa volta mi mandi veramente a quel paese) e di chiedergli le sue impressioni sul concerto. "Mmmh non mi piacciono molto. Anzi, fanno schifo", mi risponde lapidario. Ma sorride, mentre lo dice, e sotto sotto percepisco la sua curiosità per una band che, sicuramente, non dimenticherà facilmente. "Che ne pensi invece del mio concerto?", mi domanda. E finiamo di nuovo a chiacchierare, mentre non nascondo una certa soddisfazione nell'essere riuscita, per ben due volte, a rompere il muro della sua personalità, notoriamente refrattaria a qualsiasi contatto umano.
Salutati i Verdena (e, ovviamente, Mark Kozelek), a mezzanotte inoltrata è il momento di Clark al Cortile di Palazzo D'Avalos. Il musicista di St. Albans sin da subito infiamma il pubblico con il suo set techno-elettronico e trasforma la location in una vera e propria pista da dancefloor, mentre nel frattempo veniamo a sapere che il volo di Jon Hopkins da Londra è in ritardo e, di conseguenza, che il suo live è stato posticipato alle 2,00. Ma il tempo scorre veloce e il live del compositore britannico arriva prima che ce ne possiamo accorgere. Devo ammetterlo, ho conosciuto Hopkins per "vie traverse", grazie alla sua collaborazione con quel raro genio della musica meglio conosciuto come Brian Eno, e non sapevo cosa aspettarmi da un suo set. A posteriori, però, posso dire che le distese sintetiche, le architetture techno, i suoni vibranti e cadenzati - marchio di fabbrica della musica di Hopkins - riescono a catalizzare l'attenzione perfino di una purista del rock come me, che di solito storce il naso a tutto ciò che riguarda la club culture.
SECONDO GIORNO
Mentre raduno le impressioni sulla prima giornata di festival, decido di recarmi ai Giardini D'Avalos, dove si terrà l'incontro "Indie rock vs club culture", con Emiliano Colasanti e Damir Ivic come moderatori. La chiacchierata si rivela molto interessante e va a toccare parecchi temi "caldi": gli obiettivi delle agenzie di booking, le esigenze degli avventori dei locali, l'eterna ostilità tra rock ed elettronica e i ben noti problemi con la SIAE. I Giardini - che l'hanno scorso avevano ospitato il magnifico set di Adriano Viterbini - questa volta accoglieranno l'australiano Scott Matthew, reduce da due live in Germania. Ma chi è Scott Matthew? Un omone di quasi due metri di altezza, che indossa delle assurde calze arancione fluo e si destreggia tra ukulele e chitarra acustica. Si muove in maniera goffa, questo gigante buono, e, non appena arriva sul palco, premette che "Non suona da solo da parecchi anni ed è un po' nervoso". I suoi timori però si rivelano infondati: Matthew riesce ad incantare il pubblico con la sua voce dolce, fragile e, allo stesso tempo, incredibilmente intensa, mentre esegue parte di 'Unlearned', album di cover acclamato dalla critica e di 'This Here Defeat', sua ultima fatica.
I tempi sono strettissimi e devo dividermi tra Colapesce al Cortile D'Avalos - con un pubblico in delirio per i suoi brani e i continui crescendo sonori dell'esecuzione - e The Pastels a Piazza del Popolo. La band scozzese, in particolare, possiede sonorità simili ai Belle and Sebastian (anche loro di Glasgow), anche se più "morbide" nello stile e nella resa live. Certo, la musica che producono non sconvolge e ad alcuni potrà sembrare troppo soft, ma il loro indie-pop non ha obiettivi sovversivi e brani come Check My Heart e Come To The Dance si ascoltano volentieri.
Alle 22,50 è il momento degli Is Tropical, che già da lontano sento incendiare il cortile di Palazzo D'Avalos con il loro ben noto electro-pop adrenalinico. Kirstie Fleck trasuda fascino e fa scatenare i presenti al ritmo di Leave The Party e Dancing Anymore, incorniciata dalle luci fucsia, viola e gialle, che si intersecano in un gioco senza fine.
Mentre la band inglese si accinge a terminare il live, in molti hanno già preso postazione sotto palco in Piazza del Popolo per non perdere neanche un fotogramma di quello che è sicuramente il concerto più atteso dopo i Verdena. James Blake è, infatti, uno degli headliner e Vasto sarà, in esclusiva, la sua unica tappa italiana del tour. Non appena l'artista londinese si avvicina alle transenne del pit per raggiungere il palco, noto come i fan cerchino di richiamare la sua attenzione: lo salutano, lo acclamano, gridano il suo nome, segno che la scelta di collocarlo nel festival è stata sicuramente azzeccata. Senza perdersi in chiacchere, Blake attacca subito con Air And Lack Thereof, accompagnato dal suo immancabile piano e da plurime manifestazioni di consensi. In un'ora e mezza piena di concerto, coccolato dall'entusiasmo dei fan, il cantante si destreggia amabilmente tra progressioni ritmiche, spinte dalle ben note sonorità dubstep, e momenti più intimi, puramente soul, come la struggente Limit To Your Love, in un continuo crescendo di emozioni. I Never Learnt To Share e A Case Of You restano impresse nella mente, come anche The Wilhelm Scream e Measurements, pezzi di chiusura con cui saluta calorosamente il pubblico accorso e mette il punto alla seconda giornata del festival.
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Ogni momento vissuto di questo festival, mentre rientriamo verso casa, finisce subito nel cassetto dei ricordi, da cui ciascuno di noi attingerà ripensando alle atmosfere del Siren, con una nostalgia che non potrà essere in alcun modo evitata. Non resta che sperare di poterne collezionare ancora, di ricordi come questi, magari in una terza edizione di un festival che, per ambizione e concreta realizzazione, si è rivelato, per la seconda volta, un incredibile capolavoro.
SETLIST Sun Kil Moon:
Hey you bastard I'm still here I Can't Live Without My Mother's Love Richard Ramirez Died Today of Natural Causes Clarissa The Weeping Song The Possum Dogs Caroline This Is My First Day And I'm Indian And I Work At A Gas Station
SETLIST Verdena:
Alieni Fra di Noi Un Po' Esageri Sci Desertico Loniterp Lui Gareggia Scegli Me Contro La Ragione Derek Il Gulliver Miami Safari Nevischio Trovami Un Modo Semplice Per Uscirne Puzzle Miglioramento Valvonauta Muori Delay Rilievo
Encore: 40 secondi Luna Don Calisto Funeralus
SETLIST James Blake: Air and Lack Thereof CMYK Never Learnt To Share Lindisfarne Limit To Your Love Case Of You Overgrown Life Round Here Digital Lion 200 Press Voyeur Retrogade Wilhelm Scream Measurements
Articolo del
29/07/2015 -
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