Una serie di fortunati eventi hanno contribuito a far incontrare due mostri del jazz/fusion, Stanley Jordan e Billy Cobham, che per la prima volta hanno collaborato insieme mettendo su uno show fatto di classici del jazz, blues e pop frullati a loro modo e risputati in due ore d’emozioni rare.
I due hanno deciso di fare il loro ingresso in società proprio a Roma, nella Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica. Batteria imponente con doppia cassa al centro del palco, sulla destra di Billy si ergono un sintetizzatore, pianoforte a coda, due spie e un microfono. È tutto quello che serve al funambolico chitarrista statunitense. Accolta da un boato, la coppia parte in sordina andando a mostrare sin dalle prime note una dimestichezza con i propri strumenti che lascia senza fiato. Fra cambi di tempo repentini e hammering parossistico, i nostri si districano in un set fatto di somme e sottrazioni, se le pelli mutano in base alla velocità di Jordan addizionandosi alle chitarre, è altrettanto vero l’opposto. I due sanno prendersi il proprio momento di gloria singolarmente senza stancare mai chi assiste con sterili esercizi di stile. Jordan è un portento della natura, lo sottolineiamo solo perché sarebbe ridondante dire la stessa cosa dell’uomo che dietro alle pelli ha praticamente suonato con ¾ del panorama jazz/blues, e non, in circolazione.
Da A Place In The Space alla versione velocizzata di Fragile (Sting), passando per Eleanor Rigby dei Beatles fino alla sonata Piano Concerto No. 21 (Mozart). Dopo la serietà necessaria e dovuta alla musica classica, Stanley afferma che Mozart porta inevitabilmente a suonare solo musica country suscitando così l’ilarità del pubblico che apprezza la sua vena ironica. La take scelta può essere suonata dopo Mozart; i killer sentimentali travolgono l’Auditorium andando a infrangere anche alcune regole rigidissime attraverso una take lunga e dissonante, fatta di improvvisazione, passaggi hendrixiani e regole divelte attraverso difficili accostamenti fra generi sporcati l’un l’altro e tenuti insieme dalla fantasiosa amalgama creata da questi due giganti. Stanley la presenta con queste parole: “In music like in the life there are rules, in music like in life sometimes you need to break those rules”.
Nel frattempo il pubblico ha già fatto capire chiaramente di essere alla mercè della two man band. Sono due ma sembrano quattro; la sofisticata tecnica tapping, di origine pianistica, di Jordan produce la parte ritmica della chitarra con la destra e contemporaneamente quella solistica con la sinistra. Questa, fusa con l’altra tecnica a 4 (usata anche da Bonzo in Four Sticks) va a creare un’imponente potenza di fuoco tribale. Come se una piovra umana a otto mani gestisse le take esaltandone le figure ritmiche con l’arricchimento di pattern tanto complessi quanto affascinanti.
Fra i presenti sono in molti in trepidante attesa per l’altro asso nelle sapienti dita di Jordan che già si è cimentato più volte con Stairway To Heaven, ma nessuno vorrebbe rimanere deluso per una mancata esecuzione. In cuor proprio ci speriamo tutti e proprio sul finire eccola, in tutto il suo cangiante splendore, arricchito di settime e none, velocissimi passaggi fra legato e tapping capaci di strabiliare l’intera sala. Cobham sfiora le pelli cambiando registro attraverso il colore per un impatto più violento ottenuto dalla somma della doppia cassa con crash e ride.
A pochi minuti dalla fine i due si prendono la solita pausa che anticipa gli immancabili encore, sono due, un assolo di Billy irrobustito da una seconda sezione in cui si somma Jordan per un finale deflagrante.
Due ore, immersi in un paradiso acustico che non capita di vedere ogni giorno.
Articolo del
22/11/2016 -
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