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Quando entriamo al Monk i Uochi Toki stanno per iniziare. Capiamo presto che non sarà un concerto normale. I Uochi Toki infatti sono nascosti da un telo sul quale vengono proiettate immagini che vengono poi modificate in tempo reale con i disegni del cantante Napo, aka Matteo Palma. Non è la prima volta che Napo accompagna con i suoi disegni le basi di Rico, aka Riccardo Gamondi, ma questa volta ci troviamo di fronte a qualcosa di diverso.
Subito ci colpisce la ruvidità delle basi elettroniche. Lo stile è infatti violento e minimale, freddo e cupo come abbiamo potuto ascoltare nel loro ultimo lavoro, lo split con i Cadaver Eyes. Si capisce presto che gli Uochi Toki non proporranno alcuna canzone del loro repertorio. Piuttosto, ci fanno fare un viaggio, raccontato dalla voce modificata in stile “robot”. La storia parla della Sorgente delle Ombre, una voragine tra le rocce nella quale gli “esseri non esistenti” si aggirano, cercando un modo di venire all’esistenza. Il modo gli viene offerto da quei curiosi esseri umani che si avventurano fino alla sorgente. Gli esseri non esistenti si impossessano dei loro corpi e vagano per la Terra, introducendo tutti quei bisogni che non sentiamo nostri. Ma un uomo riesce a non farsi catturare dalla sorgente: si chiama il Baratro. Da lì in avanti insegnerà ai raminghi che arrivano alla sorgente come non farsi catturare, attraverso la sua disciplina liquida, che consiste nel “fa’ un po’ quello che ti pare”. Questa è in sintesi la trama della storia, ma nel concerto-performance degli Uochi Toki c’è molto altro. Soprattutto le immagini e il “commento” scritto e disegnato in sovraimpressione da Napo. Il continuo movimento tremolante, che crescendo porta all’esplosione di un’immagine dopo l’altra, sembra richiamare una visione lisergica. Il fatto che i Uochi Toki vogliano giocare e prendersi gioco del concetto di psichedelia - la serata a cui siamo si chiama Rome Psych Nite - appare chiaro quando Napo scrive la parola “psichedelia” per poi barrarla e scrivere sotto “somadelia”. Altri temi appaiono e scompaiono tra le immagini che danzano con le basi: cos’è l’animale per l’uomo, cos’è la natura, cos’è il sacro. Gli Uochi Toki scelgono una via impervia, fatta di musica disturbante e lontanissima anni luce da un qualunque tipo di melodia: ormai non ci sono più neanche le rime e il rap a fornirci un appiglio. Ma l’esplorazione è personalissima e significativa, e il pubblico giustamente apprezza il coraggio del gruppo, viste le tante persone sedute per terra per concentrarsi meglio sul viaggio.
Passa poco tempo, e lo scenario torna ad essere quello di un normale concerto. Salgono sul palco Julie’s Haircut, che presentano il loro ultimo album Invocation and Ritual Dance Of My Demon Twin. Dopo una breve intro, parte The Fire Sermon, con il suo ritmo tribale e gli inserimenti di pianola orientaleggianti. Segue Zukunft, la lunga suite d’apertura del disco, con il sax che si inserisce su una canzone in perfetto stile kraut-rock, a cui si somma la grande influenza dei Sonic Youth. Passano via via le canzoni dell’album: Orpheus Rising dall’approccio più jazz, Cycles che sembra venir fuori da un culto misterico, Deluge con la sua cavalcata.
Purtroppo si fa strada un’impressione che verrà confermata man mano: i brani dell’ultimo disco eseguiti dal vivo mancano di intensità e profondità. Non si ricrea nel live quell’atmosfera suggestiva e avvolgente che è il punto di forza dell’ultimo lavoro. Fanno capolino brani tratti da vecchi album, come Death Machine tratto da After Dark, My Sweet, e in questi casi il risultato è decisamente migliore, con le chitarre finalmente più consistenti.
Uno spunto interessante è il continuo scambio di strumenti e ruoli tra Nicola Caleffi, Luca Giovanardi, Andrea Rovacchi e Andrea Scarfone. Solo Laura Agnusdei al sassofono e Ulisse Tramalloni alla batteria restano fedeli ai propri strumenti. In definitiva, i nuovi pezzi necessitano ancora di un rodaggio da parte del gruppo affinché possano risultare coinvolgenti come gli altri. Ma a parte questo aspetto, abbiamo visto una band un po’ troppo innamorata della propria immagine piuttosto che della propria musica: tante, troppe mosse sul palco; le clip in bianco e nero proiettate durante il concerto risultavano un po’ “buttate lì”, per pura estetica. La dimensione internazionale che si stanno meritatamente guadagnando attraverso i dischi sta forse facendo perdere troppa genuinità al gruppo emiliano
Articolo del
02/04/2017 -
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