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La cronaca
Prologo Partecipare al Roadburn Festival è un’esperienza unica e irripetibile (a meno che non ci si ritorni l’anno successivo, cosa molto probabile). Partenza da Orio al Serio insieme a una troupe di amici sciroccati (e addetti ai lavori) con una low cost il cui equipaggio sembra uscito da un film di Kusturica. Uno dei due steward ha lo sguardo in equilibrio precario fra il Jack Nicholson di Qualcuno volò sul nido del cuculo e il mostro di Milwaukee Jeffrey Dahmer. In quanto agli altri, meglio non parlarne. Atterrati bruscamente in Germania, dove la temperatura crolla drasticamente a 2°, affittiamo un van direzione Olanda. L’autista, che non parla una parola d’inglese, è un personaggio fiabesco che ci scarrozza direttamente fino Tilburg. Durante il tragitto ci si ritrova immersi in aperta campagna fatta di paesaggi quasi surreali, così precisi, ordinati e puliti da creare a qualunque italiano una sorta di disagio impossibile da descrivere.
Alle 13.00 l’unica cosa da fare è andare allo Stoffel, uno dei numerosi pub che hanno modificato la corsa in base all’economia del festival. Essendo i primi roadburner, il gestore chiede il permesso di scattarci qualche foto da postare sul sito. Dopo la levataccia e un pranzo ristoratore arriviamo in albergo per sbrigare l’incombenza del check-in. Ci concediamo una doccia, poi andiamo a prendere i braccialetti per l’ingresso. Ci si può registrare un giorno prima per evitare file e rallentamenti (proprio come in Italia…).
Il warm up inizia in tarda serata del mercoledì dentro un pub il cui nome, non a caso, è Cul De Sac. È praticamente impossibile entrare considerati gli spazi angusti, quindi dopo aver salutato alcuni amici e bevuto qualche decina di pinte si ritorna a casa per il meritato riposo. L’organizzazione del festival rasenta una precisione che in Italia, almeno al momento, è praticamente impossibile raggiungere. Le venue sono ben 5 e tutte molto vicine fra loro, collegate in modo efficace e funzionale.
Day 1 L’avventura inizia nel Main Stage con i Black Crippled Phoenix. Propongono molti brani dell’ultimo Bronze, la qualità dell’acustica è davvero eccezionale e la band mostra una forma sempre più brillante con il passare dei minuti. Partono lenti e ponderosi ma dopo ogni canzone l’aggiunta di dettagli, l’aumento della spinta propulsiva e i suoni divisi perfettamente per canale conquistano anche i più dubbiosi. Il pubblico appare ordinato e gentile, ma anche rumoroso e caldo durante i gig più incandescenti come gli Unearthly Trace al Green Room, seconda venue adiacente al Main Stage. Fautori di uno sludge corrosivo, i tre ripropongono con grazia (si fa per dire) e maestria tutto il lavoro sviluppato in studio per l’ultimo album. Si esce piacevolmente intontiti e con la necessità di abbassare l’intensità andando a vedere Rome, in acustico, dentro la chiesa sconsacrata dell’Het Patronaat. Più che un concerto sembra un happening sciamanico, la voce incanta tutti e le note della chitarra risuonano maestose dentro questa meravigliosa cornice gotica. Dopo aver mangiato qualcosa e ingollato un numero di birre che si perde nel tempo e nella memoria fiaccata da sua maestà il luppolo, ci si pone al cospetto dei Wolves in the Throne Room, eletto a concerto metal per eccellenza. Appaiono eleganti ma pericolosi come un chirurgo pazzo la cui ferocia si scaglia sui presenti a colpi di bisturi e colpi d'ascia sulla carne viva, la nostra, pescando da Two Hunters per ispessirne il suono attraverso un rifferama granitico. Colpiscono tutti i presenti mentre la sala trasuda esaltazione, portano a casa una vittoria scontata sin dall’incipit incandescente affidato a Dea Artio. Gli statunitensi demoliscono qualunque cosa suonando come se fosse il loro ultimo concerto e senza sbagliare nulla. Se ne esce frullati a dovere, pieni di piacevoli lividi, consci di averli visti ancora al top della forma e forti di una cattiveria senza eguali. In serata è la volta del concerto che suscita più curiosità in assoluto, i Coven (si quelli di Black Sabbath) con Jinx che esce dalla bara verticale con qualche difficoltà legata ai due giovani seriamente impacciati durante il trasporto. Lunghi capelli biondi e all black dressed, per la gioia delle prime file, mantiene ancora una voce invidiabile. Per il resto è una sorta d’evento nell’evento più che un vero e proprio concerto. A dirla tutta, oltre due terzi del pubblico è presente per poter dire di averli visti. La seconda domanda che frulla in testa è: “Cosa potranno mai da offrire dopo quarantanni di carriera (o di silenzio se preferite)? Onestamente? Nulla. Sono lenti, macchinosi, tutti incappucciati per necessità sceniche ma del tutto privi di spinta. Propongono uno show a fasi alterne, anche dentro l’economia di ogni brano si zoppica parecchio, sono mestieranti simpatici ma (ahimè) artritici e asfittici. Lei gioca in difesa per evitare sovraesposizioni che peggiorerebbero il resto dello show mostrando i grandi limiti di una settantenne. I due chitarristi emergono a fatica andando a inficiare l’economia del concerto che di certo non è fra i più memorabili. Non eseguono neanche i super classici ma alla fine la sfangano con classe e un certo mestiere mostrando il fianco scoperto. Sarebbe facile farli a pezzi ma la ferocia del palco e il mancato rodaggio li hanno già blastati a dovere. Li molliamo a metà concerto per correre dai The Devil And The Almighty Blues (per fortuna!), forti del II disco uscito da poco. Sono carichi e profondamente blues oriented, imperniati su strutture hard da capogiro e assoli al cardiopalmo. Chitarre e sezione ritmica si danno la caccia con un'escalation di violenza pentatonica. A concerto finito, il pubblico non li molla ma l’organizzazione e il timing feroce degli olandesi non permette nessun encore. A malincuore si ripiega sugli Scissorfight che di certo non lasciano l’amaro in bocca martellando i presenti con rasoiate al vetriolo e una spinta in verticale pari a quella dello shuttle. Altra birra per reintegrare i sali minerali persi dentro la calura dei locali e si ritorna sul luogo del delitto da cui tutto ha avuto inizio. Nel Main Stage stanno per salire i fuorilegge Bongzilla. Quattro animali appena evasi dalle peggiori carceri di Caracas che, come cingolati, spazzano via ogni dubbio sulla paternità della band più ignorante (è un complimento, di quelli seri) del Roadburn. Mentori dello stoner/sludge, genere d’eccellenza e propellente di questo festival, ripropongono per intero il loro classico Gateway. Suonano sporco, Mike infila un centinaio di fuck e qualche urlo gutturale in preda ai fantasmi che gli fuoriescono dagli occhi, arrossati da chissà cosa, mentre racconta aneddoti sconnessi intrattenendo il pubblico fra una canzone e l’altra. La sezione ritmica non è distorta, questo termine non basta più a definire i contorni di quel suono arcigno. Il solo basso, durante il check, riesce a far vibrare le pinte di birra e l’intestino crasso. A fine serata, non paghi delle sonore legnate e fiaccati dalla stanchezza, ci concediamo ancora qualche birra prima di crollare rovinosamente a letto.
Day 2 Appena fuori dall’albergo servono un paio di caffè lunghi e qualche ora per riprendersi con calma. Alle nostre spalle Scott Kelly (Neurosis) e il chitarrista dei Baroness hanno deciso di sedersi allo stesso Cafè. Il piano per il relax è appena saltato, ci muniamo della necessaria faccia da culo e andiamo a rompere la magia della colazione per qualche foto e due chiacchiere. Gentilissimi acconsentono di passare dieci minuti insieme a noi. Poi è arrivato il momento d’immergersi dentro il corridoio che ci porterà a vedere la prima band del venerdì, Gnaw Their Tongues, altri cittadini modello capaci di demolire un’intera sala riproducendo il sound di un cingolato russo. Passiamo velocemente dai Magma ma la sala è così piena da non riuscire a vedere neanche la band. I francesi mostrando influenze kraut e inserti free jazz che lasciano respirare nei momenti più fluttuanti e sfuggenti. Rimanere dentro è impossibile, optiamo per True Widow, lisergici quanto basta per farci rimanere incollati nelle prime file. Gli Emptiness sono un enigma, alternano momenti buoni a passaggi così insignificanti che ci riserviamo il diritto di rivalutarli nel caso le nostre strade dovessero incrociarsi ancora. La vera rivelazione della serata su chiamano Joy e suoneranno all’Hexstase. Dopo un lungo soundcheck, che passa velocemente grazie al funambolico batterista capace di ipnotizzare proprio tutti con pattern serratissimi, si parte in quarta con una (jam)session che fonde Zeppelin I e Blue Cheer di Vincebus Eruptum. Non c’è un solo momento di magra, lunghi flussi psicotropi sotto effetto wah-wah si mischiano a furibonde sessioni ritmiche. Suonano per un’ora rapendo il pubblico avido d’estasi seventies. Fino a questo momento niente del genere era salito sul palco. Sono una furia, si lasciano solo brandelli dietro eleggendosi a highlight assoluto del Roadburn e concerto dell’anno. Neanche il tempo di terminare lo spettacolo che metà pubblico, noi compresi, è al merch per accaparrarsi una copia del vinile. Bomba assoluta. Fra i vari concerti mancati, per ovvi motivi, segnaliamo i Subrosa per ben due volte, Chelsea Wolfe e Amenra ma agganciamo i martellatori Zu, fiore all’occhiello tutto italiano. Mancinano sassi, sfruttano passaggi jazz, divagazioni industriali e rasoiate impazzite sputate dal sax i cui accessi d’ira risuonano dentro una sala strapiena e grondante efferata violenza. Non c’è quasi modo di vederli sul palco ma il corpo percepisce tutte le frustate inferte dal basso. Vedendoli dal vivo, in questa cornice e con un’acustica impeccabile, aumenta la stima incondizionata per quest’orgoglio nazionale. Era abbastanza prevedibile che il lavoro etereo e sfuggente, studiato per Jihator, sarebbe stato messo da parte per un concerto più “classico” alimentato dalla linfa di Cortar Todo le cui ritmiche oblique sono state scandite da Tomas Järmyr (impegnato anche nei Motorpsycho). Non paghi delle coltellate prese, e affetti da (in)sano masochismo, ci infiliamo nel set degli Whores. Vomitano una serie di pezzi tratti da Gold, in equilibrio precario fra la violenza degli Unsane e la cattiveria dei Jesus Lizard a cui aggiungono qualche venatura à la Helmet. Sul palco sono un uragano i cui danni al nervo acustico sono irreversibili. Trasudano livore e potenza brutale per un’ora piegando ogni resistenza con groove malevolo e piglio riot eliminando fronzoli e orpelli a favore di un impatto diretto e incondizionato. Poi è la volta dei Baroness, uno spettacolo buono ma non eccelso agli occhi di chi scrive, se evitassero di cantare lo show acquisterebbe un valore diverso. Il colpo di grazia finale lo affondano gli Harsh Toke. Del tutto inaspettati, si rivelano il secondo highlight del venerdì, suonano una miscela esplosiva di hard rock con due asce in avanti impegnate in una guerra intestina e senza esclusioni di colpi. Hanno classe nelle movenze, gusto nella scelta delle soluzioni armoniche e tecnica da vendere. Il loro è uno show magnetico, ammantato da un'irresistibile coltre psichedelica. In gara con altre tre band per la migliore esibizione dell’intero festival.
Day 3 Il sabato è il giorno di maggiore affluenza e, considerato il taglio prettamente stoner metal, anche quello meno interessante. La fauna di astanti è vestita nelle tonalità più accese e variegate del nero, borchie, catene, piercing e magliette di band i cui font creano danni cerebrali irreversibili se fissate per più di tre secondi. A volte è quasi impossibile leggere i nomi stampati sulle t-shirt. Si parte con un trittico di tutto rispetto, i primi a salire sul palco sono i Cobalt, altri derelitti radioattivi morbidi e delicatissimi come una mazza chiodata sui denti. Mettono a fuoco e fiamme la Green Room per più di un’ora. La sezione ritmica macina colpi su colpi, feriti a morte dalla chitarra di Shane McCarthy. Black metal e sludge di quello buono, un’ottima e piacevole sorpresa. Tocca ai Razors in the Night. Anche questa proposta lascia un marchio indelebile che contribuisce a innalzare il livello di tintinnio delle orecchie già ampiamente compromesso dai due giorni precedenti. Per chiudere il cerchio è impossibile non fare un salto dalle parti degli Oranssi Pazuzu. Sono una certezza, bestie impietose senza alcun riguardo per i volumi e la distorsione che equivale al rumore molesto prodotto da un’acciaieria a pieno regime. Deludenti invece i Warning con il singer in stato comatoso, 15 minuti bastano per mollarli lì dove sono e passare a Slomatics che a differenza dei primi stanno complottando con Satana in persona per la conquista del mondo. Spingono a dovere, con accelerazioni da capogiro. I My Diyng Bride (ri)suonano per intero Turn Loose The Swans puntando sulla precisione di strumenti affilati a dovere dalla perseveranza e dagli anni on the road. Il pubblico è totalmente rapito da una sorta d’invincibile sindrome di Stoccolma. Altrettanto buoni risultano gli Aluk Todolo, galeotti nel piglio e tosti come titanio puro, (ci) infliggono una ripassata di cinghiate immerse nell’aceto madre.
Day 4 Domenica, giorno di chiusura e resoconti. Il bill non promette niente di buono, solo sana ignoranza che ci costringe a rimanere presenziando a quasi tutti i live. Oltre metà delle persone sono sparite in mattinata, per i corridoi si passa tranquilli, le venue sono più comode e spaziose. Si respira accendendo ai concerti con facilità. Si inizia in modo trasversale con gli Oxbow, band psicotica guidata dall’imponente mole del singer che suda come Zidane durante i mondiali del ’94. Suonano all’Het Patronaat destrutturando la forma canzone su basi blues e inserti jazz, rinforzati da potenti siringhe dissonanti. Sono storti come una scoliosi del 9° grado, allo stesso modo del pubblico presente in cui si celano strani personaggi. Una coppia mi afferra per un braccio presentandosi come pro(fessional) smelly people, ovvero “annusatori seriali di roadburner”. Considerate le facce in giro, la cosa non mi sconvolge più di tanto e mi presto al gioco, io e il mio socio a quanto pare non puzziamo abbastanza, quindi superiamo la prova alla grande. Quello che non si aspettano, i due giocherelloni, è che io gli chieda di annusarli a mia volta mandando in crisi il loro piano. Alla fine ci lasciamo con un sorriso e la consapevolezza che cose così possono succedere solo in questa cornice e che qui rimarranno sepolte fino al prossimo anno. Intanto la band sta relegando la melodia nei meandri più nascosti delle trame proposte. Suonano per un’ora sottoponendo cervello e orecchie a dura prova, forti di uno spettacolo del tutto imprevedibile. A seguire è la volta dei Pallbearer, sono buoni ma soffrono impietosamente la prova del singer, troppo lontano dal risultato ottenuto in studio. I fuori registro vocali sono così tanti e palesi da bollarlo definitivamente. L’ultimo album intitolato Heartless è davvero buono, in studio sono imbattibili, potenti, efficaci e dritti come una spada di Hattori Hanzo. È proprio quello il problema, i Pallbearer sono più magnetici su disco che dal vivo. Al di fuori della sala d’incisione producono uno show buono ma non eccelso, fatto di luci e ombre, con troppe indecisioni sul canto. Saltiamo i Sumac, nostro malgrado, ma becchiamo una buona sorpresa rappresentata dai Les Discretes, ottima rivelazione fra le proposte dell’afterburner. Tre spanne al di sopra di tutti si pone lo show dei Gong, una bomba all’idrogeno di melodie e scatti d’ira funesta instillata nello sguardo psicotico del riccioluto singer Kavus Torabi. Rimordenizzati quanto basta per non snaturarne l’essenza, ripropongono alcune cose legate al passato (Allen era) con Radio Gnome. Sebbene non sia rimasto un solo membro originale della vecchia formazione, la fenice rinasce dalle proprie ceneri decollando su ali psych prog-rock dal tiro inarrivabile. Sono fuoriclasse assoluti, c’è poco da girarci intorno. Magnetici, psicotropi e con una capacità davvero invidiabile di gestire i propri strumenti che non hanno più segreti. Producono uno show magmatico capace di trasformare gli astanti in adepti di una setta satanica dalla quale è impossibile uscirne indenni.
Momento di pausa culinaria, si fa per dire, considerato come mangiano in Olanda risulta un’iperbole, prima degli Ulver. I norvegesi se la sono giocata e bene, hanno conquistato una mano difficile, rei di un disco non del tutto convincente per la scelta di suoni e la produzione molto vicino agli ultimi Depeche Mode, o ai tardi anni ‘80 se preferite. Lo show si muove sinuoso sulle dinamiche dell’ultimo The Assassination Of Julius Caesar tanto acclamato quanto non del tutto a fuoco. Lo suonano per intero infarcendolo di luci psichedeliche, laser accecanti e una miriade di combinazioni policromatiche che lasciano storditi. Hanno classe e stile. Sanno fare il loro mestiere e riuscendo in un’impresa che sembra impossibile: rendere ottimamente dal vivo un disco che in studio ha convinto poco. Vincono e non era del tutto scontato che succedesse. Da sempre ricercatori di un sound potente, quanto lascivo e ammaliante, portano sul palco un ottimo spettacolo e una riproposizione fedele dei suoni. I campionamenti ingrossano la mole del sound che oseremmo definire diretto e spartano (Jørn H. Sværen e Tore Ylwizaker ci perdonino l’azzardo). Se prima del loro show i dubbi erano molti (anche leciti), si finisce per consegnargli le chiavi del Roadburn e del Main Stage. Hats off to Ulver. È il momento degli irriducibili Pontiak, responsabili di uno dei candidati a miglior album dell’anno, suonano al Green Room riproducendo alcune bordate prese da Dialectic Of Ignorance. Com’era prevedibile riescono a rendere, in modo inattaccabile, il sound prodotto in studio. Sebbene la loro ultima fatica sia molto ricca e complessa, i nostri sono totalmente a loro agio nella dimensione live. Bastano le prime take, prese da Maker e Innocence, per mettere le cose in chiaro. I tre fratelli Carney sono un mix perfetto fra hard rock, psichedelia di fine grana e potenti ganci al fegato capaci di produrre la stessa forza distruttiva di Mike Tyson a vent’anni. 55 minuti che sembrano un attimo, distorti, violenti e precisi viaggiano a memoria con leggeri cenni del capo nei momenti in cui improvvisano assoli all’uranio. Sbrandellano la sala, scorticano i presenti e quando si è sul più bello ci lasciano lì, estasiati e increduli per il minutaggio davvero contenuto. Ok per la storia del il less is more, sarà pure figo, ma qui si esagera. Insomma avremmo voluto vederli sul palco per un’ora e mezza, ma tanto non sarebbe bastato. IMPERATORI. Per chiudere degnamente quest’avventura, ci riserviamo il diritto di presenziare ai Pillorian, ingegneri infallibili del metal capaci di far mangiare polvere a molti. Sono di un’altra pasta, si vede da come si muovono e dalla capacità di produrre brani complessi e strutturati, con molti cambi interni, stop e ripartenze al cardiopalmo. Fra i pretendenti a vincitori del festival loro ci sono, con buona pace di tutti gli altri. Potremmo farci bastare questa mazzata finale ma una insistente vocina in testa ci dice che non è ancora finita, non del tutto. Decidiamo di entrare ai Radars From The Moon, l’ultima fatica è totalmente ripagata. Siamo al cospetto di un trio capace di spingere come un rompighiaccio artico. 900 cavalli vapore nelle sapienti dita della sezione ritmica, rinforzata da potenti iniezioni synth(etiche) che ne modificano chimicamente il d.n.a. Sono una furia e un castigo divino che meritiamo in tutti i sensi. Le ultime forze le riserviamo per tornare a piedi in albergo, strano ma vero i tassisti ci rimbalzano più e più volte, una cosa così incivile che ci sembra di essere rientrati in Italia prima del previsto.
Epilogo Il Roadburn Festival modifica il modo di concepire i grandi eventi, soprattutto se si è abituati alla pochezza raffazzonata degli italiani. Colpisce da più fronti in un tiro incrociato a cui è praticamente impossibile sfuggire. Agisce de tacco e de punta, andando a conficcare una serie di aghi in zone sensibili e colpi della divina scuola di Hokuto piazzati in punti di pressione che solo Ken conosce. C’è una maestria rodata nell’aspetto di marketing e comunicazione, l’organizzazione è quasi perfetta. Il neo più evidente è l’eccessivo numero di biglietti venduti che non permette di entrare nelle venue più piccole in cui però sono previsti molti ottimi concerti. Extase e Cul de Sac, ma anche l’Het Patronaat in qualche occasioni, soffrono file lunghe come il fiume descritto da Conrad in Cuore di Tenebra. Al di la delle sovrapposizioni, che inevitabilmente costringono gli astanti a seguire uno show invece di un altro, ci si augura che il prossimo anno gli organizzatori cerchino una soluzione efficace che eviti lo stallo, andando a inficiare un lavoro certosino e un festival che, da sempre, ha mostrato molto rispetto per i partecipanti. Volendo essere pignoli ci viene impossibile non sottolineare l’inadeguatezza del sistema di trasporto taxi che a fine serate non accettano corse fatte di pochi km. Voto finale: 9
Articolo del
15/05/2017 -
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