|
Se dovessimo mandarvi una cartolina dal concerto di Little Steven live a Pistoia, la potremmo trovare più o meno a metà della scaletta, quando all’improvviso ci siamo ritrovati per sette/otto minuti per le strade dell’America nera degli anni ’70, tra James Brown, la blaxploitation, il funk, il soul jazz, e il chitarrista del New Jersey che coi suoi discepoli dell’anima teneva in scacco la calorosa piazza del Duomo di Pistoia a suon di fiati, coriste, bassi corposi e suadenti, assoli di sax, tromba e chitarre, con un piccolo miracolo di alchimia e una sorta di sonora ipnosi collettiva.
Bandana sempre in testa, giacchetto e spolverino nero, collane e foularone colorato, Fender d’ordinanza, ma anche la voglia insaziabile di scavare dentro i mille suoni delle strade d’America, delle sue tante storie, di ieri e di oggi, come fa da anni nel suo programma radiofonico, Underground Garage, ad esempio, a caccia di nuove garage band, e come ha dimostrato la sera prima a Firenze facendo da DJ all’Hard Rock Cafe’ di Firenze, dove ha poi incontrato noi fans per chiacchiere e autografi: signore e signori, Steve Van Zandt, ovvero Little Steven.
E’ tornato a capo dei Disciples of Soul dopo quasi vent’anni, e in Italia da solista dopo quasi trenta (anche se in tutti questi anni è stato dalle nostre parti tante volte a fianco dell’amico di sempre Bruce Springsteen), ed è tornato con un disco Soulfire bellissimo e ricchissimo, un vero tesoro di suoni e musica americana, e con un live che ha fatto unica tappa in Italia proprio nella piazza centrale della cittadina toscana, nel giorno dell’indipendenza americana. Un concerto per pochi intimi, visto che i paganti sono stati meno di duemila, ma Stevie non è parso preoccupato o demotivato quando alle 22.18 ha fatto il suo ingresso in scena, preceduto dalla band, i discepoli del soul, appunto, ben tredici sul palco, tutti vestiti di nero a parte le tre coriste, nere ma bardate di bianco, che a fronte palco, non smetteranno un attimo di dimenarsi e trascinare il pubblico, assecondando la verve istrionica del pirata venuto da Asbury Park.
Soulfire è anche il brano di apertura, chitarra funky, fiati cori e contro cori: Little Steven con la fedele Stratocaster nera a tracolla, scalda le corde e intanto prende le misure col fonico di palco, chiedendo di alzare o abbassare i volumi in spia, in una sorta di check in tempo reale. Con il secondo brano Coming Back, che Steve scrisse per l’amico Southside Johnny nel ’91, il livello di adrenalina cresce e si intuisce che la grande intesa sul palco, riuscirà a sopperire ad una resa dei suoni non sempre eccezionale, penalizzata dall’acustica della piazza che rimbalza a tratti troppi bassi, e finisce troppo spesso col soffocare la voce del capobanda, sostenuto comunque costantemente dal gran lavoro (anche coreografico) delle coriste e dalle armonie dei fiati diretti magistralmente dal solito Eddie Manion.
Il grande pregio di Little Steven è stato sempre quello di curare i suoni e l’amalgama dei musicisti in scena e in studio, e non solo dei suoi, visto il grande risultato dei lavori anni 70/80 con il già citato Southside Johnny, ad esempio, ma anche con lo stesso Springsteen, alla cui resa dei suoni e degli arrangiamenti ha contribuito non poco, almeno fino al 1980. La piazza di Pistoia alla fine non si è rivelata forse il posto più adatto per apprezzare tutte le sfumature sonore, ma in ogni caso è uno spettacolo vedere come chitarre elettriche, tastiere, fiati, voci, e una sezione ritmica potente e versatile riescano a spostare il baricentro dal rock, al soul bianco, al blues, in maniera inattaccabile, trascinante.
Stevie si presente al pubblico ricordando a tutti che siamo qui “to celebrate life”, e il messaggio non lascia indifferente la piazza, che inizia a scaldarsi e a sentirsi parte di una festa di grande musica, prima di tutto. Ospite del Pistoia Festival non può non omaggiare il blues, prima con una versione velenosissima di The Blues is my business (inserita anche nel disco Soulfire), con Etta James che aleggia nell’aria, quindi con una sorprendente Groovin’ is easy, degli Electric Flag, con il nostro che fa il verso a Mike Bloomfield (e nel finale ci sarà spazio anche per una versione incendiaria di Killing Floor).
Chiaramente tutti attendono il famigerato Asbury sound, e arrivano piccole gemme Come Love on the wrong side of town, scritta insieme a Springsteen per il solito Southside, e Until the good is gone, con Steve che si diverte a dilatare il finale duettando con il pubblico italiano, di cui sa bene che quando ci sia da fare cori o botta e risposta, beh, non ci sono rivali al mondo probabilmente. La ricetta del sound è facile ma strepitosa: sezione fiati, chitarre elettriche, ritmiche avvolgenti, melodie e armonie vocali grandissime nella loro semplicità, e nel loro ricercarsi e inseguirsi costantemente in una sorta di wall of sound, da jersey shore. L’emozione comincia a diventare palpabile, e per chi è presente, la sensazione è quella di assistere ad un concerto dove l’ intensità e il feeling sul palco siano costantemente palpabili. Arrivano anche i brani più rock: St. Valentine’s day, Angel Eyes, e Standing in the line of fire (con Stevie che ricorda l’animale rock Gary U.S. bands, sempre in giro a fare concerti), ma anche il fuoco di I saw the light e Salvation mandano in aria la piazza, mentre in The city weeps tonight, Little Steven si veste da crooner, in una sentita e preziosa interpretazione. Dopo la già citata immersione in territori blaxploitation, con la colonna sonora di James Brown in Black Caesar, immancabile Princess of Little Italy ci porta in territori più torridi, passionali, con la chitarra di Stevie che puntella da grande strumentista quale è, e quale forse da troppo tempo non emerge con la stessa statura nella E Street Band.
Con il reggae militante di I am a patriot che fa cantare tutto il pubblico, ricordando il Little Steven più politico degli anni ’80, ci si avvia verso il finale, e se Ride the night away è la miccia che fa saltare il banco definitivamente, in una versione molto simile a quella maiuscola pubblicata da Sothside Johnny in Better Days, del 1991, è davvero sorprendente come anche Bitter Fruit esca rivitalizzata e rinvigorita da un arrangiamento che ne sottolinea le cadenze mambo. Ormai siamo totalmente prigionieri di una band che non ha mollato per un attimo per oltre due ore, e mentre fradici e claudicanti chiediamo tregua, le tre coriste continuano a spingere e a ballare, in una sorte di spettacolo nello spettacolo che non può non lasciarci sedotti e affascinati: nei momenti in cui il pirata Stevie non ci richiama all’ordine gli occhi sono tutti per loro!
Attesissima arriva I Don’t wanna go home, il primo pezzo in assoluto scritto da Steve Van Zandt e pubblicato da Southside Johnny nel suo primo disco, e che l’autore ha voluto riportare alla sua idea originale, meno tirata e più soul anche nel cantato, perdendo forse un po’ di mordente ma guadagnandoci in anima e calore. Per i richiestissimi bis sul palco salgono sul palco Rick Nielsen dei Cheap Trick, stimatissimo da Stevie, e David Bryan, storico tastierista dei Bon Jovi, e si chiude alla grande con Walking by myself di Jimmy Rodgers, e il ricordo di Chuck Berry con una formidabile Bye Bye Johnny. Il saluto finale è con Out of darkness, soul anni ’80 condito con elettricità e tastiere, il Little Steven che lasciava la E Street Band, e pubblicava Voice of America nel 1984, per cercare la propria voce tra Reagan e l’edonismo rampante di quegli anni. E non potrebbe chiudere in maniera migliore, con le due mila anime di Pistoia che cantano e ballano al suono dell’indomito Steve Van Zandt: “Vedo che il giorno si fa più chiaro, stringimi un po’ più forte…Fuori dall’oscurità, mano nella mano…”. Ci si vede da queste parti in autunno, grande piccolo Steven
(foto di Marco Calvenzani)
Articolo del
10/07/2017 -
©2002 - 2025 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|