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Reduci dalla impegnativa data del giorno prima all’Hyde Park di Londra, dove hanno aperto (non senza qualche critica) il concerto del grandissimo Tom Petty, The Lumineers sono sbarcati a Roma lunedì sera per il loro mini tour italiano, proseguito poi ad Ancona e quindi a Villafranca di Verona in una 4 giorni senza sosta.
A precederli il set muscoloso ed elettrico dei californiani Shelters, bravi a conquistare attenzione e tanti applausi in poco più di una mezz’ora, e ad attenderli una Cavea praticamente tutta esaurita, un pubblico calorosissimo, con moltissimi 20/25enni, tantissimi di nazionalità estera, che ha cantato praticamente per tutta la durata dello spettacolo. Una grande festa alla quale i Lumineers hanno ovviamente dato il loro contributo dimostrando di essere una band che funziona anche dal vivo, senza camicioni di flanella a scacchi, come qualcuno temeva, o barbe da finti hipster (nel senso: cappelli e barbe si, ma non da finti hipster.
Una bella barba e basta (quando sta bene sta bene!), abiti quasi eleganti per la serata romana, giacca e camicia e anche un bel cappello, e con la loro miscela di indie/folk, rock e pop: Neyla Pekarek al violoncello, Jeremiah Caleb Fraites a batteria, percussioni e mandolino (ma anche glockenspiel), e il front man Wesley Keith Schultz, capello e folta barba (eccola!) bionda, occhi azzurri, vero idolo per ragazzine e non solo, unico chitarrista sul palco (ma occasionalmente anche seduto al piano), più altri tre strumentisti che si sono alternati a basso, percussioni e pianoforte. Proprio il vezzo di avere una sola chitarra sul palco (acustica o elettrica) a dettare la linea ritmica, solo con arpeggi o pennate serrate, senza assoli, dà la misura di una band senza strumenti solisti, ma con brani quasi sempre brevi, o brevissimi, alcuni sotto i tre minuti, dove è l’effetto sonoro complessivo, l’arrangiamento semplice ma mai banale, e quindi efficace, a fare la differenza, e a valorizzare lo scheletro già di per sé vincente, di melodia e accordi. L’attacco con Sleep On the floor dal loro ultimo disco, Cleopatra, uscito nel 2016, è già una piccola chicca solo per l’Italia, per un brano che solitamente viene eseguito dalla band a metà scaletta. “Ciao Roma”, ed un’apertura che fa presagire come andranno le cose: la percussione a cassa sottolinea i quarti, la chitarra acustica sferra gli accordi, la linea melodica si distende fino al cambio di ritmica a metà brano: gran pezzo (e bel video, andatelo a vedere!). Con Flowers in your hair che apriva il loro primo omonimo lavoro del 2012, il ritmo sale e il pubblico si scalda, con la trama del violoncello che inizia a farsi sentire (anche se con qualche piccolo calo nell’intonazione, ma l’umidità non perdona!). Il brano dura pochissimo, due minuti e mezzo, ma basta ad accendere la miccia, si va avanti già tutti in piedi su spalti e nel parterre, e con gli steward che a fatica rimandano al mittente i primi tentativi delle prime file di stabilirsi a bordo palco. Il resto lo fa l’acustica incredibile, al limite della perfezione della Cavea dell’Auditorium che sottolinea bene tutti i passaggi e le sfumature (piccole sbavature comprese) nelle energiche esecuzioni dei musicisti sul palco. Dopo una sequenza tratta dal primo album (Classy Girls, Dead Sea e Charlie Bo), arriva Darlene tratta da un EP autoprodotto dalla band nel 2009, che Wesley e compagni decidono di eseguire a voce viva e senza strumenti amplificati, con il coro vibrante della Cavea. Momento corale che viene ripetuto subito dopo, con l’attesissima Ho Hey, il tormentone che li ha lanciati nel 2012 (in Italia in realtà nel 2013), e che il leader della band invita il pubblico a cantare insieme a lui. Il risultato è di grande effetto anche per merito della splendida acustica della Cavea, e la partecipazione dell’Auditorium fa capire che quando la musica, che si può anche definire per certi versi pop, ma con radici così folk e popolari, conquista in questo modo tanta gente, in tutto il mondo, si fa fatica davvero a sminuirla come roba di facile presa ma con poca sostanza: come se indovinare una linea melodica vincente, un ritornello killer, e un arrangiamento minimale ma efficace, sia da considerare deprecabile.
I The Lumineers, sia ben inteso, non inventano niente, anzi arrivano sulla scia del successo di band come Mumford and Sons, o degli Arcade Fire di Funeral, che sono riuscite a coniugare un certo folk magari di matrice irish, con elettricità e melodia. L’unico limite resta quello che un simile schema può funzionare in contesti ben definiti, non troppo grandi e con un determinato target di audience, dove rende alla grande come fosse una bella festa in un gigantesco pub irlandese, ma probabilmente nel parco di Hyde Park, finisce col perdersi e può finanche annoiare. Bella anche la cover di Dylan Subterranean Homesick Blues, virata in minore, mantenendo sempre l’incedere torrenziale della lirica originale, con il violoncello che finalmente si fa sentire, e nel finale resta solo con il pianoforte, mentre Wesley abbandona la chitarra e scende dal palco per cantare l’ultima strofa facendosi strada col microfono tra i seggiolini in platea.
Dopo un’avvincente e incalzante Cleopatra, sempre dall’ultimo disco arrivano Angela, Ophelia e Gun Sung, e la bella Big Parade incisa invece nel 2012, che trascina definitivamente anche i pochi che fin lì non si erano lasciati andare, di un pubblico che ormai gli steward hanno rinunciato ad arginare. Siamo quindi festosamente a bordo palco, mancano solo i tavoloni, i lampadari che penzolano, e qualcuno che spilli la birra, e tra i la la la, e la bolgia tra le prime file, potremmo essere davvero al pub. Si va verso la prima chiusura che avviene con la leggerezza quasi sognante di Patience, eseguita in solitudine dal solo Jeremiah al piano. Ma non possono mancare i bis, non prima che Wesley Schulz, abbia ringraziato per l’ennesima volta il calorosissimo pubblico di Roma: è lui a presentarsi da solo con la chitarra ormai diventata elettrica, ed eseguire Long way from home, prima che la band torni a colpire con l’accoppiata Submarines Stubborn Love, veri e propri manifesti dei The Lumineers, proprio con i loro tanto criticati Oooooh, Uuuuuh, Aaaaah, Eoooh, che invece diventano chiavi di volta di brani costruiti con grande intelligenza nella loro semplicità, e con le percussioni che si inseriscono improvvise per poi trascinare alla grande il pezzo. The Lumineers salutano dopo appena un’ora e un quarto, unica vera pecca di un concerto, intenso e divertente è vero, ma che avrebbe potuto, e forse dovuto, andare avanti ancora un po’. Giustificati parzialmente dal fatto che da Londra all’Italia i nostri avranno fatto 4 concerti in 4 concerti, Wesley e compagni per il futuro dovranno adesso certo inventarsi qualcosa per crescere senza snaturarsi, ma la ricetta funziona e con ancora un pizzico di inventiva, potranno dire la loro magari ancora a lungo
(foto di Antonello Cacciotto)
Articolo del
13/07/2017 -
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