Little Steven non è mai stato solo il chitarrista della E Street Band di Bruce Springsteen, ma sin dalla metà degli anni ’70 ha scritto, composto, arrangiato e prodotto musica, canzoni, dischi, contribuendo in maniera fondamentale a quel jersey shore sound (ma anche Asbury sound dalla cittadina di Asbury Park, New Jersey, dove molti hanno iniziato) che, pur non raggiungendo mai le vette delle classifiche o il successo planetario, ha segnato un’epoca nella east coast, influenzando generazioni di musicisti e di appassionati.
Steven Van Zandt (questo il suo nome all’anagrafe, anche se il suo nome vero era Steven Lento, poi cambiato con il cognome del secondo marito della madre), ha scritto da solo o insieme proprio a Springsteen, canzoni per grandi interpreti come Southside Johnny e Gary U.S. Bonds, e la sua competenza in materia di rock, soul, blues, e altre mille derivazioni di questi generi, ne fanno un artista di grande cultura musicale che porta sul palco tutte queste influenze, tutta la sua vicenda personale (e anche la sua carriera di attore, sia ne I Soprano che nella serie norvegese Lilyhammer da lui prodotta e interpretata), ma anche decenni di musica scritta e suonata tra Detroit, New York, Chicago, con una naturalezza, un portamento, un’indole, da autentico fuoriclasse.
Era dalla fine degli anni ‘90 che Steve non tornava a fare dischi e tour a suo nome, e quando nel 2016 gli è stato proposto di rimettere su la vecchia band dei Disciples of Soul, dopo quasi vent’anni ha preso la palla al balzo per incidere un intero nuovo disco nel quale recuperare alcuni dei brani che nel corso degli anni aveva scritto per altri e interpretarli in una versione aggiornata di quel sound mai dimenticato, e alcuni classici sparsi tra blues e soul, da James Brown a Etta James. Il risultato è un disco, Soulfire che mischiando appunto ancora una volta gli elementi di quel suono inconfondibile, tra fiati, cori, chitarre elettriche, percussioni e ritmiche funky/soul/reggae, ha messo a segno quello che secondo molti è il punto che l’amico Bruce da troppi anni non riesce a segnare.
Un anno dopo il concerto dello scorso anno a Pistoia che aveva segnato il ritorno in Italia dopo trent’anni, martedì sera a Roma nella cornice sempre suggestiva di Villa Ada, oasi immune dal caos metropolitano della capitale, Little Steven e i suoi Disciples of soul, puntuali dalle 22, hanno dato vita ad un concerto bellissimo, suonatissimo, ricco di note e musicisti di gran livello, trascinante, coinvolgente, per un pubblico purtroppo solo di poche centinaia di persone ma pronto a lasciarsi andare sin dalle prime note suonate da una band di ben 15 elementi, con 5 fiati (tra i quali il solito impareggiabile Eddie Manion, già all’opera con Springsteen in diversi tour), 3 scatenate coriste, un percussionista “armato” di tutto punto, piano, organo, chitarre e una sezione ritmica instancabile.
Due ore e mezza di concerto, iniziate col riff inconfondibile di Sweet Soul Music, “classicone” di Arthur Conley e Otis Redding (tra l’altro in scaletta fissa in uno dei tour più belli proprio di Springsteen, quello di Tunnel of love del 1988) suonato in maniera magistrale, a marcare subito il territorio. Un’apertura che è già un trionfo di stacchi, accenti, fiati, cori: il pubblico è già in visibilio. Steve si presenta, come al solito, bandana in testa, palandrana scura addosso nonostante i 30 gradi, e la sua ineguagliabile verve. Per niente scoraggiato dal pubblico non numerosissimo, ha tirato fuori quella che a Roma si definisce “una canna” non indifferente, cantando con fiato, polmoni, energia, e quel colore soul che con gli anni sembra sempre più dominante nelle sue intenzioni vocali. I primi 7-8 brani in scaletta sono da ko: si alternato brani da Soulfire ad altri del primo album solista di Steve, Men without women, datato ormai 1982, dal quale durante la serata pescherà ben 7 titoli.
Bellissimo sentire come i tastieroni anni ’80 dell’epoca siano stati ri-arrangiati da fiati e chitarre, in una miscela nera che riesce a dare ancora più lucentezza a pezzi che già avevano un tiro micidiale. Se alcune cose nonostante il restyling restano accusano qualche colpo (l’omaggio al western di Morricone di Standing in the line of fire, che al tempo fu regalata a Gary U.S. Bond per il suo omonimo album, o la radiofonica Valentine’s day), altre si ascoltano con piacere sul filo dell’effetto nostalgia (come Princess of little Italy, tenera tra mandolino e fisarmonica e quindi dall’inevitabile sapore mediterraneo), altre ancora lasciano senza parole con i fiati che introducono, sottolineano, dettano riff e fraseggi in clamoroso concerto con tastiere, piano, chitarre, basso e batteria: da Lyin’ in a bed of fire, a Love on the wrong side of town (piccola gemma a metà strada da epica e Love affair, di cui Springsteen è coautore), da I saw the lightBitter fruit, quando i fiati prendono la scena si resta travolti e coinvolti, catapultati in un attimo sui boardwalk del jersey shore: è una bellezza che si ripete intatta ancora dopo 30-40 anni, e sono i momenti più esaltanti di uno show che di emozioni ne riserva tantissime.
Se Blues is my business vede Little Steven nei panni del bluesman “in carriera”, circondato da donne, cori, trombone e sax, e la sequenza Until the good is gone/Angel Eyes/Under the gun prova a misurare la tempra del pubblico, Steve non perde l’occasione per ribadire sfumature soul “alla James Brown”, con la lunga suite di Down and out in New York Ciyt e per calcare gli accenti blaxpolitaiton come altra radice di formazione e ispirazione. Parla tanto tra una canzone e l’altra, fiero e orgoglioso di ricordare aneddoti, sensazioni, e le aspirazioni di un pugno di ragazzi che credeva nella musica, e nell’amicizia. E’ un viaggio nella formazione musicale sua e dei suoi compagni di avventura, dallo stesso Springsteen all’amico Southside Johnny, fino a Gary U.S Bonds (“he’s still great”), che assorbivano tutto, sonorità, testi, arrangiamenti, fino al reggae che tanto segnò i dischi a firma Little Steven degli anni ’80/’90, ma che nella serata romana è stato messo sostanzialmente da parte.
Rispetto al concerto in toscana dello scorso anno c’è qualche cover in meno (manca la Killing floor di Howlin’ Wolf o Groovin’ is easy degli Elecric Flag) e più cose scritte o prodotte dallo stesso Steve. Lui si agita, incita il pubblico, chiacchiera con le prime file, guida la banda, suona la chitarra (splendida la coloratissima Stratocaster che utilizza sul brano Soulfire) non disdegnando appena possibile di lanciarsi in assoli senza troppi fronzoli ma di grande impatto, e dà spazio a tutti i componenti della band, ognuno dei quali viene messo in risalto e in evidenza, comprese le tre coriste davvero gioia per gli occhi e per le orecchie.
E’ anche bello che ci tenga a sottolineare e ribadire come la musica, la sua musica, e quella che lo ha formato, e che poi attraverso di lui ha contribuito ai grandi successi planetari dell’amico fraterno Bruce Springsteen, nasca dalla mescolanza di generi, persone, culture. Un invito ad accogliere le diversità e, anzi, farne tesoro, mai troppo scontato di questi tempi.
Il finale è maiuscolo, esplosivo, con Ride the night away epica, notturna, gridata tanto quasi da far perdere la voce al nostro, una tiratissima I don’t wanna go home (capolavoro registrato al tempo da Southside) a tinte fortemente soul, la sorprendente cover di un brano del primo disco degli U2, una Out of control rimasticata con fiati e cori, mentre la conclusione è affidata come quasi sempre a Out of the darkness, sempre tratta da Men without Women. “Insieme possiamo uscire da questa oscurità” dice Little Steven prima di congedarsi dallo sparuto ma calorosissimo pubblico romano con quest’ultimo pezzo in scaletta, e con il sottointeso riferimento a questi giorni bui d’America. Si finisce così, stanchi ma davvero felici, con tanta musica e “soulness” ancora addosso e, dopo esserci rimasti un po’ male perché concerti così meriterebbero il sold out, va a finire che toccherà ringraziare chi non c’è stato, se alla fine con poche centinaia di persone si sia invece creata un’atmosfera calorosa ma intima sotto il cielo di stelle di Roma, e ci si sia potuti guardare in faccia, occhi negli occhi, con la bella storia di Little Steven e dei suoi discepoli del soul e dell’anima
Articolo del
20/07/2018 -
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