Ore 21.10, siamo in transenna più per istinto che per passione: Calcutta si presenta con giubbottino colorato (che abbandonerà dopo un paio di brani) sopra t-shirt e jeans neri, barbetta più o meno incolta, capelli al solito arruffati sotto il cappellino da baseball, sneakers ai piedi e il suo sguardo disincantato e sorridente. Lui è un normalissimo eroe dei nostri giorni, non fa acrobazie con la sua voce, non è bellissimo e non è un frontman che si mangia il palco. Eppure è straordinario nella sua normale genialità.
Martedì 5 febbraio al Palalottomatica, nella prima delle sue due date romane ha dato dimostrazione di quanto le sue canzoni, il suo immaginario quotidiano e surreale allo stesso tempo, che rende Pomezia o Frosinone teatro di storie suggerite per frammenti più che raccontate, possano funzionare e conquistare grandi platee. Il palazzetto sold-out entrambe le sere è un po’ un trucco, visto che metà degli spalti non sono stati resi disponibili per il pubblico che è disposto quindi in metà anello, ma è solo un dettaglio perché siamo comunque in mezzo a migliaia di ragazze e ragazzi, per la maggior parte giovanissimi tra i 20-25 anni, carichi a mille, di fronte a uno dei loro primi idoli, probabilmente.
Edoardo D’Erme, questo il suo nome all’anagrafe, si sistema qualche metro più avanti rispetto alla band (due chitarre, basso, batteria, due tastiere e ben 4 coriste) e starà praticamente sempre in piedi davanti al microfono, con un paio di intermezzi acustici da solo o quasi, voce e chitarra, che sullo schermo vengono presentati come “momento intimo”.
Briciole apre la scaletta come apre il suo ultimo disco Evergreen (2018), e da qui il cantautore di Latina estrae diversi pezzi tra i più attesi: da Paracetamolo (chi non la conosce?! Non sentite il cuore a mille?!) a Kiwi, passando per Rai, Orgasmo e Hubner. La band lo asseconda forse fin troppo, visto che tesse un tappeto sonoro compatto nel quale i particolari finiscono tutti col perdersi o quasi, e nel quale solo la voce del cantante (e del pubblico che lo accompagna a tratti sovrastandolo) deve essere sempre in evidenza. Calcutta a dire il vero non sbaglia una nota, spinge di gola quando serve e fa cantare il pubblico quando avverte che è il momento giusto, puntando soltanto ad essere credibile, sincero, nei suoi racconti spesso incredibili, e a volte apparentemente senza un filo logico. Non sembra mai uno che se la tiri, anzi. In scena c’è un personaggio diretto, spontaneo: “ciao ragazzi, finalmente a Roma…questi che dicono ciao Roma…a me me pare ‘na cazzata, quindi vi dico ciao ragazzi!. Comunque Roma mi piace eh, io sono di Latina, quindi Roma l’ho sempre vista come la grande città, però mi piace eh, è una bella città, ci ho studiato, mi ha fatto anche male, ma mica me la prendo con voi, e neanche con Roma, al limite me la prendo con me stesso. Vabbè, comunque la prossima canzone si chiama Milano, quindi non c’entra niente con quello che ho appena detto”.
La scaletta attinge ovviamente anche da Mainstream, (a parere di chi scrive il migliore dei suoi tre lavori in studio) pubblicato nel 2015: da Gaetano (uno dei tanti personaggi surreali), la bellissima Del Verde, la già citata Frosinone, passando per Milano e una stralunatissima Le Barche. Ma non mancano le chicche (su tutte Amarena) dal primissimo Forse… esordio allucinato del 2012 in cui Calcutta iniziava a sperimentare la sua vena visionaria, poi messa a fuoco nei due dischi successivi. Certo è che a fronte di 8-10 brani in scaletta che suonano come piccoli capolavori di genio, melodie non banali e vincenti, ritornelli killer (tra i quali la palma del migliore resta a mio parere il gioiellino “Frosinone”), altri nascondono dietro una bella idea o un riflesso di talento, non troppa sostanza e, stranamente per un ventinovenne ancora gli inizi, già tanto mestiere e la chiave, ormai dopo 7 anni non sappiamo quanto inconsapevole, per esaltare con una sola frase il pubblico e i social network. Diciamo che ci può stare con tanta pressione mediatica addosso che in pochi anni l’ha portato dalle cantine all’Arena di Verona.
Mentre via via la scaletta si avvia al termine, tra visual su schermo gigante alle spalle della band, molto ben realizzati e immancabili clip di Francesco Lettieri, un sound che rispecchia quasi fedelmente quello in studio, due o tre dediche a “chi stasera viene da Latina?”, e le coriste che provano pian piano a farsi spazio e farsi sentire, un video messaggio di Fiorello precede l’ospitata di Cosmo, altro idolo dei più giovani, che canta con Calcutta Oroscopo, classico esempio di quanto appena detto: brano forse fin troppo facile, dall’andamento e dal ritornello contagioso, diventato non a caso tormentone radiofonico e che lo stesso autore ha dichiarato di non amare troppo (tanto da averlo firmato, ma mai inserito all’interno di uno dei suoi album).
Eppure dopo un’ora e mezza di concerto, restiamo del parere che ci sia del genio nella normalità un po’ naif di Calcutta: la sua capacità di non prendersi troppo sul serio, di saper dare una propria impronta tra ironia e melodia quando scrive (ultimo esempio: Se Piovesse il tuo nome, scritta per Elisa), di trascinarti nel suo mondo dove disegni una svastica in centro a Bologna ma solo per litigare, dove “ti presterò i miei soldi per venirmi a trovare”, o dove è normale far notare che “la tachipirina 500, se ne prendi due, diventa 1000”. Viva Calcutta!
(foto di Antonello Cacciotto)
Articolo del
11/02/2019 -
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