Un concerto da ricordare a lungo quello avvenuto il 22 febbraio 2019 al Largo Venue con i Pineapple Thief e gli O.R.k., le due formazioni hanno difatti riservato ai presenti oltre due ore e mezza di musica attingendo ad un repertorio di assoluto spessore qualitativo.
E' stata una serata, quella del 22 febbraio, in cui non si capiva bene il tempo che ci avvolgeva, e dove le sfumature delle stagioni si perdevano in un limbo tra la terra e il cielo. A metà tra la fine del buio ed il tocco della luce. Solo un leggero vento portava alla mente l'inverno ancora presente. Il Largo Venue a via Biordo Michelotti è poi uno di quei luoghi che ricrea al suo interno un microcosmo tutto suo, così che dopo essere arrivati sul posto verso le 20 circa, ed aver atteso in coda ad una già una discreta fila, all'interno del cortile ci si è ritrovati in un mondo sconosciuto dove pulsava la passione e l'attesa per una serata segnata sul calendario degli appassionati da mesi. Una volta giunti con decisione sotto al palco, luogo di culto da cui sentire le vibrazioni e la veemenza della musica, l'inizio della serata non si è fatto attendere troppo, e, alle 21 in punto, gli animi degli avventori si sono incendiati all'arrivo degli O.R.k., emersi dal buio per poi prendere velocemente posto ai rispettivi strumenti.
Supergruppo per metà italiano, vanta tra le sue fila figure come quelle di Colin Edwin al basso, Pat Mastelotto alla batteria, Lorenzo Esposito Fornasari alla voce/tastiera/elettronica, e Carmelo Pipitone alla chitarra. Freschi dell'uscita discografica di Ramagehead proprio nella giornata del 22 febbraio, la band ha cominciato a suonare ripercorrendone subito le tappe con Kneel To Nothing, rendendo istantanea la partecipazione del pubblico grazie al connubio pressoché inossidabile della sezione ritmica di Pat e Colin, questo senza nulla togliere a Fornasari e Pipitone, autori tra l'altra della rivisitazione, per via dell'assenza del cantante ospite, di uno dei singoli dell'album, ovvero quel Black Blooms che nella versione originale aveva Serj Tankian come seconda voce. Un'esplosione di incastri sonori, di brani che mutano il proprio andamento nel giro pochi minuti, tanto che le tracce del disco ne sono uscite rinvigorite proprio grazie a questa sinergia che dal vivo ha fatto trattenere il fiato. Quando il loro tempo è volto al termine, nell'attesa dei Pineapple Thief l'aria sembrava ancora farsi carico di un'elettricità imperante.
Il tempo di riprendere il fiato non è mai abbastanza in occasioni come queste, e alle 22 l'atmosfera sul palco si è rifatta di nuovo oscura, lasciando trapelare dal fumo i componenti dei Pineapple Thief. La loro musica ha subito un'evoluzione ed un arricchimento costanti a partire dal lontano Someone Here Is Missing del 2010, passando poi per All The Wars, Magnolia ed In Your Wilderness negli anni successivi, fino ad emergere in un progressive rock sfaccettato e dalla spiccata personalità in Dissolution, uscito ad agosto 2018, grazie anche al contributo di un maestro assoluto della batteria come Gavin Harrison. Considerato tra i migliori attualmente sulla piazza, ha militato in passato anche tra le fila dei Porcupine Tree, ed ora è in pianta stabile, oltre che nei Pineapple Thief, anche nei King Crimson di Robert Fripp. Un contributo il suo che ha stravolto e portato ad una maturazione e sinergia compositiva tutto il gruppo, composto da Steve kitch alla tastiera e sintetizzatore, Jon Sykes al basso, e dal leader, Bruce Soord. In questo primo concerto a Roma la band britannica ha dato prova anche dal vivo di essere tra i gruppi che oggi stanno portando avanti con maggior sperimentazione e fantasia il progressive rock e le sue mille sfaccettature, con Soord che non ha mancato durante tutta la loro esibizione di rimarcare questa instancabile dedizione e passione verso la musica.
In quasi ogni brano c'è stato un cambio di chitarra, uno scambio di battute con gli altri compagni, un sentito ringraziamento al pubblico, mentre i tanti e bellissimi pezzi, provenienti in particolar modo dagli ultimi tre album in studio, si sono avvicendati tra gli applausi ed i fischi di approvazione. Non a caso gli ultimi tre lavori della band sono quelli che hanno visto accentuato a dismisura l'apprezzamento da parte degli appassionati, i quali vi hanno riconosciuto un netto miglioramento in fatto di scrittura e personalità. Canzoni come White Mist hanno acquisito dal vivo una dimensione ed un'impatto emotivo inimmaginabile in studio, e lo stesso si può dire di altri brani come In Exile, No Man's Land o That Shore. Arrivati ai bis abbiamo poi visto riproposta una versione particolarmente eterea di Not Naming Any Names, ma anche due tra i brani più vecchi del loro repertorio quali Nothing At Best e 3000 Days, rinvigoriti dalla performance sopra le righe di Steve Kitch alla tastiera ed al sintetizzatore.
Calato il sipario, mentre le luci si riaccendevano nella sala ed il mondo aldilà dei muri ritornava a far rumore al posto delle note, noi ci avviavamo nella notte, venendo accarezzati da una brezza leggera mentre ci riscoprivamo non più confusi come in principio, ma con nuove memorie di un concerto, e di due band, indimenticabili.
Articolo del
24/02/2019 -
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