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Da dove iniziare… Tredici anni e tre mesi lontani dal mercato discografico e dodici dai palchi italiani. Come Penelope, le cui aspettative per il ritorno di Ulisse si erano ridotte all’osso, i fan dei Tool erano in ansia per i danni che la clessidra, sempre impietosa, avrebbe potuto infliggere alla band. E pensandoci bene anche a loro stessi, impegnati a ingannare il tempo attraverso il materiale di A Perfect Circle e Puscifer. I più temerari, e danarosi, erano addirittura arrivati a comprare il vino prodotto da vigneti californiani dell’oste Maynard.
Ma questa è un’altra storia, o quasi, quindi procediamo per ordine.
Ci dirigiamo all’ippodromo verso le 19.30, in tempo per vedere una versione claudicante degli Smashing Pumpkins. La band non brilla affatto, se gli assoli delle hit mandano in brodo di giuggiole i fan di vecchia data Billy invece sembra opacizzato del tempo e dai kg di troppo. Il leader non si salva neanche con una versione, del tutto inutile, di Wish You Were Here che quasi gli ritorce contro come un boomerang. Al netto di 4/5 canzoni del periodo aureo, il resto sembra l’ultima zampata di un leone morente, in netta difficoltà, affaticato e tanto sudato da scombinargli il trucco riducendolo alla maschera di un clown caduto in bassa fortuna. Non ce ne vogliano i fan di Smashing Pumpkins e lo stesso Billy, sei anni fa al Rock in Roma stavano molto meglio
TOOL Sono le 21.40 quando la minacciosa intro di Third Eye risuona nell’impianto e da quel momento in poi nulla sarà come prima. L’estenuante attesa termina con l’ingresso di Carey, seguito da Chancellor, Adam “Gandalf” Jones e un Maynard in versione punk con super cresta e giubbotto di pelle a striglie rosse.
I Tool sono una band trasversale, passano attraverso generi musicali opposti, per unire persone apparentemente distanti, evitando in tutti i modi i riflettori ma soprattutto rimanendo distanti dalle mode (neanche quella delle piattaforme streaming, operazione commerciale che per molti suona come un suicidio). Non creano hype (anche se il risultato finale è esattamente quello) risultando quasi asettici, per alcuni addirittura freddi. Al di là della percezione personale però rimane un dato oggettivo, musicalmente e a livello esecutivo i Tool hanno fatto un concerto devastante, frutto del binomio fra musica e immagini per un’esecuzione spietata. È bastata la sola Aenema per zittire chiunque spazzando via ogni dubbio come la presunta onda che si dovrebbe abbattere proprio su L.A., tesi mutuata da Goodbye You Lizard Scum, sketch di Bill Hicks (“un altro eroe morto”).
I due schermi posti ai lati opposti del palco danno accesso limitato al loro piccolo, si fa per dire, mondo attraverso un lavoro di visual efficace e calzante come una seconda pelle sui suoni precisi nei dettagli, suddivisi egualmente fra i due canali dell’impianto. Il loro è un lavoro d’intarsiatori, fatto di rallentamenti e poliritmie d’apnea, infilate nei fraseggi di Jones spinti oltre il limite di quanto la mente umana possa a sopportare.
I concerti dei Tool non vogliono ammaliare ma attrarre i presenti, come una forza oscura, creando qualcosa di diverso nel tentativo, riuscito, di sopraffare tutti gli spettatori. Affascinanti come la materia oscura, imprigionata in un buco nero, si sono costruiti una sorta di universo parallelo di cui si sa pochissimo il che, ovviamente, aumenta il magnetismo esercitato su chi si avvicina al loro mondo.
Seducono con implosioni e deflagrazioni controllate, saldamente ancorate alle mani di Danny Carey, il fuoriclasse assoluto della sezione ritmica e prima donna di questo show dardeggiante.
Senza Carey niente di quanto abbiamo ascoltato sarebbe stato possibile. Il batterista sprigiona un sisma, controllato nella potenza e nel tempo, della dodicesima scala Mercalli attraverso fill mai fini a se stessi e pattern serratissimi attraverso complicate figure ritmiche esercitate sui piatti. Terzine sulle casse e tempi obliqui esplodono nelle due nuove take, Descending e Invincible, quest’ultima forte di 5 segmenti ritmicamente separati e tenuti insieme dal lavoro alchemico del bassista, libero da doveri ritmico-coniugali della sua signora in pelle presieduta dal Mr. Octopus Danny.
Quello di Visarno è stato uno show fuori da ogni regola e logica classica. I Tool sono tornati dopo molti anni, come Jerry Lee Lewis dopo la gogna mediatica, per uccidere come infallibili killer dotati di una superiorità insindacabile, irrobustita dai visual di Jambi su cui l’imponente figura di Maynard si aggira come il mostro de Il labirinto del fauno.
La sua è una rotazione ellittica che s'interrompe in quei momenti di sana follia in cui afferra il microfono per qualche urlo scardinante. Al di la della parte scenica, torreggia un canto inarrivabile, inficiato però dal volume della voce sepolta nel missaggio, troppo bassa rispetto alle randellate delle pelli e ai riff circolari di Jones, e timida negli acuti per paura di strafare o forse per una condizione non ottimale. Con il passare dei minuti si alternano senza tregua The Pot, Schism (interposta come bombola d’ossigeno fra le due del nuovo materiale) Vicarious e la rediviva Sweat.
Inutile parlare dei virtuosismi incastonati nella sezione centrale di Forty Six & 2 in cui Carey si prende il lusso di complicare l’assolo interno. Danny è un propulsore instancabile e insostituibile, alimentato da un propellente che non appartiene a questo mondo, la cui origine e provenienza risultano ancora oggi sconosciute.
Qualcuno si lamenterà dell’assenza scenica di Maynard. Da metà carriera in poi la sua è stata una scelta, quella di fare un passo indietro per riequilibrare l’assetto delle parti lasciando, dove possibile, maggiore visibilità al resto della band. È la filosofia del “ridimensionamento del leader”, ridotta a una funzione quasi marginale ma pur sempre vitale. Per ottenerlo l’unico modo è arretrare ponendosi in penombra, riducendo l’impatto visivo e lo spazio occupato, rotando la presenza frontale a beneficio di una lateral(us)e annientando così l’ego attraverso una luce fioca e inadatta. Insomma, Maynard distrugge il suo ruolo per creare un’entità, quell’entità aliena(nte) sono i Tool. Prendere o lasciare.
La cosa più difficile, nell’affrontare un live set così maestoso, non è la risposta fisica che richiede sì fatica (a cui il corpo però resiste contrapponendo una paresi muscolare transitoria che irrigidisce ogni muscolo agendo sul sistema nervoso centrale per disinnescare il dolore) ma la resistenza psichica a quest’assalto brutale ma chirurgico, ricco di informazioni, feedback, reazioni auditive, visive e cinestesiche. Un forte senso di ansia, e addirittura il manifestarsi il desiderio che tutto svanisca al più presto per l’insostenibile sforzo prolungato, sono reazioni spesso comuni di fronte ai maestri della progressione in metallo, al pari dello scoramento e della disperazione verso gli ultimi minuti dello show, prima del grande silenzio e di una sicura insonnia che governerà l’intera notte a seguire. È difficile da spiegare, ma chi era lì comprenderà benissimo il senso di queste parole.
I Tool di oggi sono diversi da quelli di ieri? Appaiono appesantiti o forse rallentati? Usano artifizi tecnici per sfuggire alla ferocia dei suoni che loro stessi hanno creato 30 anni fa? No, i Tool del 2019 (almeno dal vivo) sono anche meglio di quelli del passato. Sono cresciuti, possenti, equilibrati e ancora più consapevoli della loro forza. Al netto di un’accordatura ribassata di un tono per The Pot, e di qualche sbavatura (e meno male!) di Adam Jones, risultano pressoché perfetti. Spiace (per gli altri) ma tant’è, i Tool suonano i Tool come mai finora e come nessun altro può fare.
Al nostro quinto concerto lo possiamo affermare senza paura di essere smentiti. Quello di giovedì non è stato un semplice live ma un ritorno sotto forma di happening religioso, una seduta introspettiva eseguita da sciamani in grado di arrivare fino alle corde più delicate e profonde del proprio Io andando a scavare nei meandri più recessi della mente.
Fatevene una ragione, i Tool in una sola parola sono inarrivabili
Setlist Ænema The Pot Parabola Descending Schism Invincible CCTrip Sweat Jambi 46+2 Vicarious Stinkfist
Articolo del
16/06/2019 -
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