Non c'è un modo vero, o anche vagamente giornalistico, per iniziare un articolo su un concerto di Marcus Miller. Sfido chiunque a trovarne uno.
Stiamo parlando di uno dei musicisti più influenti del ventesimo secolo (ed in realtà, anche del ventunesimo). Uno che, per fare qualche nome, ché ai giornalisti piace sciorinare informazioni statistiche, ha collaborato con Miles Davis, Eric Clapton, Victor Wooten, Herbie Hancock, Michael Petrucciani, solo per citarne alcuni. Un concerto di Marcus Miller è un viaggio nella storia del jazz, un concentrato di musica suonata e, soprattutto, sentita, non solo con le orecchie, ma, prima di tutto, con l'anima (cosa, purtroppo, non scontata di questi tempi).
È un ottovolante di stili, sfumature ed atmosfere. Si va dal funk più puro di brani come "Trip Trap" ai pezzi più intimi e personali, come "Sublimity" o la suite strumentale col clarinetto basso. Canta molto poco, Miller. Ma riesce a coinvolgere il pubblico praticamente da subito, sembra cortese ed a suo agio. In fondo, probabilmente conosce più il basso che sé stesso, per cui...
Lo spettacolo che regala, quasi due ore di musica, è uno spettacolo pieno, corposo e ben studiato, con delle luci spesso soffuse e calde ed alcune cover memorabili, da "Tutu" e "Amandla", memorie della collaborazione con Miles Davis, a quel capolavoro assoluto che è "Come Toghether". A fargli da spalla, una band stratosferica, nella quale ognuno è un solista, dalla batteria alla tromba, dal sassofono alle tastiere, tutti a servizio della causa jazz, qui sì, quello puro, fatto di improvvisazioni e svisature.
La grandezza di Marcus Miller la si capisce appieno vedendolo sul palco. La si capisce da piccoli dettagli: non smette mai di tenere il tempo, anche quando non suona, schiocca le dita. Quando suona, suona tutto, nel senso che tiene il tempo con tutto il corpo, come Stevie Ray Vaughan quando faceva gli shuffle. Poi fa anche da direttore d'orchestra, è lui a ricordare gli attacchi agli altri membri della band, gli si avvicina quando non suona. Fra un pezzo e l'altro intrattiene il pubblico raccontando dei brani che sta per eseguire.
Le cose che saltano all'occhi sono queste perché della tecnica è anche superfluo parlarne. Un vortice di slap, quel thumb inconfondibile ed uno stile che si riconoscerebbe fra mille.
E, dove Paul McCartney rivoluzionò l'uso del basso, inventandogli delle partiture proprie invece della semplice tonica dell'accordo e Jaco Pastorius lo ha elevato, rendendolo anche strumento solista, la rivoluzione di Marcus Miller sta nell'essere riuscito a rendere il jazz- fusion un genere magari non mainstream, ma quantomeno accessibile a tutti, gradevole e coinvolgente.
La tappa del Laid Black Tour di Palermo è stata quasi come quando un meteorite cade sulla Terra e dà l'opportunità di farsi osservare. Ecco, al Teatro Golden è accaduto esattamente questo: un meteorite, con un basso in mano, è caduto sulla Terra per farsi vedere e mostrarsi in tutta la sua abbagliante spazialità. Chi c'era si è goduto uno spettacolo incredibile, chi non c'era, farebbe bene a rimpiangere un po' di non esserci stato
Articolo del
09/07/2019 -
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