DUE PUNTI DI VISTA PER UN CONCERTO UNICO NEL SUO GENERE
Report di Riccardo Rossi
Lo ammetto, non ero il più grande fan dei Muse sulla terra. Per anni li ho sempre tenuti a margine dei miei ascolti musicali, lasciando che il tempo ed altri gruppi sovrapponessero i loro suoni a quello che era stato il mio ultimo approccio verso la musica del trio inglese, ovvero Absolution del 2004. A pensarci adesso, dopo un paio di giorni di pensieri e parole a vagare tra le stanze della mia mente, questa quarantena verso di loro non trova una giustificazione univoca. Forse la voce di Matthew Bellamy? Forse un suono che si è progressivamente arricchito di sovrastrutture troppo elettroniche? Forse, ma durante gli anni anche i miei gusti musicali si sono evoluti, arrivando a toccare generi che un tempo non avrebbero neanche sfiorato il mio lettore cd.
Ed ecco che poi è arrivata l’occasione di una vita, di riscatto, con i Muse di nuovo allo Stadio Olimpico il 20 luglio di quest’anno, dopo il live del 2013 da cui era stato tratto anche un live album + film. Nei giorni precedenti sono andato a riascoltarmi pian piano tutta la discografia, tornando più volte anche sul discusso e ultimo capitolo “Simulation Theory” .
E qualcosa è scattato davvero, si è riaccesa la curiosità, perché capivo ormai di aver raggiunto quella maturità che anni fa non potevo possedere, e che adesso era invece davanti ai miei occhi, nell’aria riempita di suoni. Un battesimo ed una rinascita, coincisi ambedue con il ritorno ad un luogo come l’Olimpico che era stato protagonista di una mia visita solo nel 2005, in occasione del concerto dei R.e.m. Dunque eccomi di nuovo lì, con altre centinaia di persone, ognuna con il proprio personale percorso, ma tutte visibilmente eccitate nel ritrovarsi insieme per un evento sicuramente tra i più attesi dell’estate 2019. Mentre ero in fila per l’ingresso al prato intorno era pieno di colori e sorrisi, di amici e genitori, e già la musica di Nic Cester si sentiva provenire dall’immenso palco allestito al centro del campo. Ma non c’è dubbio che il pubblico stava aspettando solo loro, che le parole al cielo e le canzoni a memoria erano riservate ai Muse.
Quando, ormai alle 21 e 20, l’oscurità è arrivata a ricoprire ogni cosa, ecco il grande schermo illuminarsi. Da lì in poi non ci sarà momento in cui al suo interno non accada qualcosa, che siano sovrapposizioni tra le riprese dei vari componenti ed il pubblico, o video tridimensionali delle canzoni, l’aspetto visivo sarà il complemento essenziale dello show. Chris Wolstenholme, Matthew Bellamy e Dominic Howard, protagonisti ed allo stesso tempo spettatori di un concerto tridimensionale, in cui lo spettatore diviene esso stesso parte dello spettacolo.
Tra laser che solcano il cielo, esseri robotici che si innalzano tra le accecanti luci, coreografie di ballerini che si calano dall’alto delle impalcature sopra lo stage, l’occhio non sa dove posarsi, e le orecchie sono colme dei tanti successi che il gruppo ha collezionato nel corso degli anni. La scaletta segue infatti quella delle date milanesi del 12 e 13 luglio scorsi, partendo con Algorithm e Pressure dall’ultima uscita, passando poi per Plug In Baby, Time Is Running Out, Supermassive Black Hole, Knights Of Cydonia e tanti altri. All’attacco di ogni brano tutto lo stadio acclama e comincia ad intonare le parole ancor prima di Bellamy, e sono proprio questi i momenti che fanno trattenere il fiato, che davvero fanno capire quanto la musica sia essenziale nella vita dell’essere umano.
Nelle due ora della scaletta c’è questo e molto di più. C’è la bellezza del ritrovare insieme ad altri qualcosa che si pensava di aver perduto per sempre, c’è l’impatto viscerale di un gruppo che non badando a spese può dar vita a mondi ora arcaici, ora pop, ora lontani nel futuro. Difficile dire cosa ascolterò fra dieci anni, ma una cosa è certa, i Muse sono ora tornati a far parte del mio presente.
- REPORT DI GABRIELE BATISTINI -
Ancora forse alcuni non si rendono bene conto di quello che abbiamo visto nella nottata romana di sabato 20 luglio allo stadio Olimpico, 42esima data di 59 del Simulation Theory World Tour. Quello dei Muse non è stato un semplice concerto, no. È stato un viaggio, un’esperienza, forse una nuova concezione della musica dal vivo: flash, giochi di luci, laser, fumo, ballerini con vestiti a led, statue giganti che escono dal palco (si avete letto bene). i Muse hanno davvero dato il loro massimo. Che il gruppo originario di Teignmouth, Devon (UK) fosse abbastanza esuberante nelle esibizioni live era un dato di fatto ormai appurato già da molti anni, ma probabilmente nessuno si sarebbe aspettato una serata del genere. “Cerchiamo sempre la scenografia più spettacolare possibile e cerchiamo sempre di spingerci ai limiti consentiti della legge” dichiarò Dominic Howard, il batterista, già in occasione del The Resistance Tour del 2009. Il “viaggio” robotico dei Muse inizia alle 21.30 dopo che nella tarda serata si erano alternati sul palco i Mini Mansions e, successivamente, Nic Cester (già leader dei Jet). “We are caged in Simulations” , recita il gigantesco Led-Wall che fa da sfondo al palco all’inizio del concerto: ballerini che si dispongono ordinatamente sulla lunga pedana e Matt Bellamy che esce dal palco al centro del pubblico.
Scaletta come da pronostico, ovvero come quelle delle precedenti due date di Milano il 12 e 13 luglio, che racchiudeva brani dell’ultimo album (Simulation Theory, 2018) e brani dei più storici ed amati del gruppo, che fanno sempre un effetto “onda anomala” sul pubblico. Inizio fulminante con Algorithm (Alternate Reality Version) e Pressure, due nuovi brani che fanno da apri fila all’ambiziosissima serata dei Muse, seguite da Psycho, Break It To Me e l’immancabile Uprising. L’aspetto straordinario del concerto è che tutti i brani sono seguiti da coreografie, sia dei ballerini che dei video dello schermo di sfondo, e tutte sembrano raccontare una sorta di storia, la storia di fantomatici “umanoidi” in lotta contro la civiltà umana. I Muse ci portano dentro questo “film” con coreografie tanto coinvolgenti che spesso distraggono il pubblico dalle canzoni eseguite. Il “conflitto” porta dunque a Hysteria, Bliss e The 2nd Law: Unsustainable prima di una commovente Dig Down: i tre si spostano sul quadrato in fondo alla pedana e, con tutto il pubblico che segue con i flash dei cellulari, eseguono il brano forse più suggestivo e “scenograficamente normale” della serata.
In sequenza brani storici come Madness, Mercy e Time Is Running Out eseguite con un gioco di luci surreale, tanto che se si rivolgevano gli occhi verso il cielo sembrava di vedere disegnata una scacchiera di laser. Impossibile dunque passare 30 secondi senza rimanere estasiati, perché se non ci pensano le luci ci pensano le canzoni: Starlight e Algorithm aprono la strada al finale del concerto riservato a Knights of Cydonia dall’album Black Holes and Revelations. Alla fine l’inverosimile battaglia contro gli androidi/umanoidi l’hanno vinta i Muse, non gli umani. I Muse. Un concerto ai limiti della fantasia, probabilmente uno dei concerti più spettacolari che la nostra cara Italia abbia mai visto. Come detto i Muse non sono certo nuovi a scenografie ambiziose: durante il già citato The Resistance Tour del 2009, che ha toccato anche Torino, avevano proposto un palco aperto a 360° in modo che si potesse vedere il concerto da ogni parte del palazzetto. Di solito nella musica sentiamo parlare di “concept album”, cioè un album in cui le canzoni sono tutte legate da un unico filo conduttore. Ma il concetto può essere applicato anche ad un concerto?
Ebbene sì, i Muse hanno creato qualcosa di mai visto prima, superando di gran lunga qualsiasi scenografia ben fatta di qualsiasi altro gruppo. La fantasiosa lotta contro gli androidi partiva già da alcuni video ufficiali di Simulation Theory, e il finale ce lo hanno portato sul palco. Impressionante. Surreale. Vedere per credere.
Articolo del
23/07/2019 -
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