(foto di Amleto Leopoldi)
Extra! Music Magazine sostiene il progetto di crowdfinding “WISH YOU WERE HERE” ideato da THIS IS NOT A LOVE SONG e dedicato ai concerti che hanno fatto la storia della Musica, quei concerti ai quali tutti avremmo voluto assistere. 32 biglietti di 32 concerti epocali, che al loro interno racchiudono 32 manifesti esclusivi illustrati da 32 tra i migliori fumettisti italiani. Il tutto anche in sostegno di 10 live club, grazie a un crowdfunding attivo dal 24 maggio fino al 31 luglio su Produzioni dal Basso. Per aderire all’iniziativa potete saperne di più sul sito https://www.produzionidalbasso.com/project/wish-you-were-here/#Biglietti-manifesti
“…donne che mandavano baci e scoppiavano in lacrime, uomini che scoppiavano in lacrime e mandavano baci, tutti che ci giuravano amore eterno battendosi il cuore con il pugno. Alcuni persero i sensi. E non avevamo ancora cominciato! Quando attaccammo con “Born in the USA”, la fine del mondo sembrava vicina: lo stadio vibrava e oscillava, noi suonavamo come se ne andasse della nostra vita”.
Bruce Springsteen racconta così, con queste parole tratte dalla sua autobiografia Born to run, il concerto allo stadio di San Siro a Milano del 21 giugno 1985, il primo concerto in Italia della sua carriera. Un ritorno alle origini, ‘back to the roots’ (come il titolo di un famoso bootleg che riporterà la registrazione pirata proprio di questa serata), alle origini perché la famiglia della madre Adele ha origini italiane, a Vico Equense vicino Napoli. Nell’estate di quell’anno Bruce era a tutti gli effetti una rockstar mondiale, molto probabilmente in quel momento il rocker più famoso al mondo! Il soprannome di ‘The Boss’ che qualcuno gli aveva affibbiato a metà anni ‘70, adesso sembrava calzare a pennello, perché da ‘eroe della porta accanto’, una sorta di ‘workin class hero’ che cantava i dolori, i sogni e le speranze dell’americano mediamente incazzato, si era trasformato in palestra nei primi anni ’80, per presentarsi con bicipiti in evidenza e spesso anche bandana in testa (una sorta di Rambo con la chitarra a tracolla, a voler essere superficiali, come spesso gli anni ’80 invitavano finalmente a essere).
Ma era giustamente il Boss anche in Italia, grazie soprattutto allo straordinario successo del suo ultimo disco Born in the USA uscito a giugno del 1984. Un successo clamoroso dovuto in particolare alla canzone che dà il titolo all’album, la storia di un reduce del Vietnam che, contrariamente a quanto pensassero i troppi ascoltatori distratti, non celebrava affatto la grandezza dell’America, ma anzi ne denunciava le laceranti contraddizioni emblematicamente rappresentate dal protagonista della canzone, vittima della sindrome del reduce tornato cambiato per sempre da Saigon. L’arrivo di Springsteen a San Siro è quindi l’Evento musicale di quella estate di metà anni ’80 in Italia. Bruce si porta appresso le cronache dei suoi interminabili concerti, suonati e cantati fino all’ultima goccia di sudore, maratone di 3-4 ore con la sua E Street Band che lo accompagna praticamente dagli esordi della sua carriera nei primi anni ’70. I biglietti sono tutti esauriti, saranno circa 65.000 quelli conteggiati ufficialmente, ma l’impressione è che dentro lo stadio siano molti di più.
Il tour americano partito il 29 giugno 1984 a St.Paul nel Minnesota, ha coperto tutti gli states fino a gennaio del 1985, per poi spostarsi in Australia e Giappone in primavera e sbarcare finalmente in Europa il 1° giugno allo Slane Castle di Dublino. In Italia i grandi concerti sono ripresi, dopo una lunga interruzione, nel 1979 con Patti Smith a Bologna, per proseguire con l’arrivo di Bob Marley nel 1980 proprio a San Siro, e poi dei Rolling Stones nelle loro date tinte d’azzurro del luglio 1982. Quello che succede dalle 19.30 di quel 21 giugno 1985, per le successive 3 ore e mezza, è entrato nella leggenda dei fan di Bruce, ma non solo. Chi lo conosceva per aver sentito i suoi dischi viene travolto da un’ondata incredibile di energia, un sound che echeggia nel catino di San Siro, mescolando l’elettricità delle chitarre (di Bruce e Nils Lofgren all’epoca, perché il ‘fratello’ Little Steven aveva nel frattempo intrapreso la sua carriera solista) con il ruvido e avvolgente calore del sax di ‘Big Man’ Clarence Clemons, la poesia ai confini del miracolo dentro il pianoforte di Roy Bittan, il contrappunto a tratti discreto ma sempre determinante di Danny Federici, la voce della rossa Patti Scialfa (che qualche anno dopo sarebbe diventata la signora Springsteen), e l’incedere della sezione ritmica formata dal drumming potente ma essenziale di Max Weinberg e la classe infinita di Garry Tallent.
Signore e signori: la E Street Band. Raccontare la scaletta di quel concerto probabilmente renderebbe solo in parte l’emozionante succedersi delle canzoni: Bruce che si presenta in maglietta sdrucita con le maniche strappate, i muscoli di cui sopra ben in evidenza, jeans e stivali di pelle, la sua fedelissima Fender Telecaster color butterscotch (in realtà una Esquire posseduta dai primi anni ’70 e che avrebbe suonato quasi in esclusiva per ben vent’anni) a tracolla, e lancia il “One Two, One Two Three Four” più potente che si fosse mai sentito per attaccare una Born in the USA rabbiosa come non mai. La banda schierata al suo fianco su un palco dove non ci sono orpelli o effetti special (nelle date americane l’unica concessione era stata una enorme bandiera americana sullo sfondo) suona con l’intensità dell’ultima volta, della volta decisiva, l’unico modo in cui sa suonare. Dopo il trionfo di synth e batteria del brano di apertura, Badlands e Out in the Street riportano chitarre, organo e pianoforte di nuovo in primo piano.
Per quanto qualcuno (non pochissimi) dei presenti avesse assistito al concerto di Springsteen a Zurigo del 1981, probabilmente nessuno a San Siro si aspettava una simile bordata di potenza, la voce di Bruce così ricca, ruvida quando serve ma dalle tante sfumature, una E Street Band così compatta, un coinvolgimento così totale. Anche il ragazzo (all’epoca aveva 35 anni) venuto dal New Jersey e la sua band restano travolti dal calore del pubblico italiano, e dall’energia che si sprigiona dalla pentola in ebollizione dello stadio milanese. Oltre a ricordarlo come uno dei suoi migliori concerti di sempre, Bruce tornerà in questo stadio altre cinque volte nella sua carriera e in una di queste confesserà al pubblico italiano di aver suonato in tanti posti nel corso di oltre quasi cinquant’anni, ma che San Siro resta “always primo, always the best”. Prima di Glory Days si lancia in un botta e risposta che spesso eseguiva con il pubblico ma che in questo caso sembra non finire mai, con tutto lo stadio che risponde all’unisono e perfettamente a tempo.
Bruce incredulo conclude con un: “FANTASTICO!”, gridato in italiano e che ripeterà più volte nel corso della serata. Dopo aver alternato brani del suo ultimo disco ad altri del suo repertorio (al tempo aveva pubblicato solo 6 album tra cui il doppio The River) introducendo My hometown, ancora in italiano dice “Questa cansone è dalla mia città alla vostra città”, facendo letteralmente esplodere gli spalti. C’è una cosa che conquista il pubblico forse più dell’aspetto strettamente musicale, più delle canzoni che alternano energia e passione (come The promised land, Prove it all night o Trapped, cover di un brano di Jimmy Cliff) a struggente dolcezza (come nella splendida esecuzione di The River), o il costante ritorno alla canzone ‘americana’ e alla sua realtà più cruda (una lancinante Johnny 99, eseguita con un’armonica che sprizza blues raccontando di un condannato a morte, o Atlantic City che, tra fucilate di rullante e sventagliate di chitarre e hammond, si muove tra misera, disperazione e ricerca di riscatto a qualunque costo), ma è proprio l’empatia che Bruce trasmette insieme ai suoi compagni sul palco.
L’impressione di non avere a che fare con una rockstar che si concede per qualche ora, ma con un musicista che crede in questo scambio con il pubblico che sta lì davanti e intorno a lui. Ci crede, ne ha bisogno e non ne può fare a meno, e dà l’impressione che stia suonando come se fosse davvero l’ultima volta che lo farà e bisogna dare, darsi tutto. Ed è forse per questo che non gli è mai piaciuto troppo (anche se spesso ci ha ironizzato su, anche durante i concerti, anche durante questo concerto) il soprannome di The Boss, che fa pensare ad un capo risoluto e distaccato. Lui è uno che ‘condivide’, sa di essere il leader e di dover prendere le decisioni, ma sul palco c’è una squadra non un solista. Thunder road viene eseguita a chiusura del primo set del concerto, con Milano che ancora saluta il sole al tramonto: è la canzone più bella probabilmente, la più magica, col suo racconto di fuga, amore e senso di libertà.
Bruce chiude il brano lanciandosi in un bacio a stampo con Clarence, in un’immagine dai tanti significati, un gesto che amava ripetere ogni sera in quel tour mondiale. Dopo una mezz’oretta di pausa, i nostri tornano sul palco, Springsteen questa volta ha addosso il giubbotto di pelle che il caldo (non solo strettamente riferito al termometro) consiglierà di abbandonare dopo un paio di canzoni. La notte è scesa su San Siro e il secondo set è subito travolgente: dopo l’iniziale Cover me (con Bruce che si lancia in uno dei suoi proverbiali assolo di chitarra, tutto istinto e rabbia), Dancing in the dark (con la replica di quanto accadeva nel video clip ufficiale, nel quale Bruce tirava su dal pubblico in platea una giovanissima Courtney Cox, questa volta con una ragazza che si saprà poi non essere italiana), Hungry Heart (ancora col pubblico a cantare) e una poderosa Cadillac Ranch: è una sequenza da infarto! Downbound train concede un attimo di splendida quiete prima di una ‘bollentissima’ I’m on fire ancor più calda della versione in studio.
La seconda parte si va a chiudere con Because the night (che al tempo tutti conoscevano per la versione di Patti Smith), la solita incredibile Backstreets (dedicata agli old fans, che fa un po’ sorridere: quella sera i fan più sfegatati lo seguivano da ben 10-12 anni!), e infine i 13 minuti da infarto di una roboante Rosalita. Ecco: chi al tempo di Springsteen conosceva solo il muscoloso rocker del disco Born in the USA, o al massimo quello di Born to run, sentendo Rosalita a San Siro, avrà capito tantissime cose che non poteva immaginare. Una band capace di eseguire un brano rock dalle cadenze quasi tex-mex, condito con forti dosi di soul e rock’n’roll: una macchina ad altissimo coefficiente di irresistibile sensualità ed energia! Il concerto sarebbe finito lì, e tutti tornerebbero a casa strafelici, ma Bruce è Bruce. E la E Street Band non conosce stanchezza.
Pochi minuti e arriva il momento dei bis: dopo una emozionante Can’t help falling in love, sentito e appassionato omaggio a Elvis, luci accese in tutto lo stadio, e una devastante versione di Born to run prosegue un vero e proprio terzo set del concerto. Altro che bis, si va avanti quasi per un’ora: Bobby Jean (col pubblico che ormai ondeggia in ogni angolo dello stadio), Ramrod (con Bruce che ironicamente introduce con “We begin”: noi iniziamo adesso!). I venti minuti di Twist and Shout (con l’intermezzo di Do You love me? ) sono estasi pura. Bruce ha ormai capito che col pubblico italiano puoi fare letteralmente fare quello che vuole sul palco ché tanto noi lo seguiremo sempre, e si lancia in duetti, gag, balletti. E’ lui il primo a guardarsi intorno, fradicio di sudore e a lasciarsi andare all’euforia del festosissimo popolo italico. Come dirà il compianto Clarence Clemons anni dopo: “era come se stessimo accompagnando un coro di 70-80 mila persone”.
Troppo diverso dal pubblico americano, ma anche dalla maggior parte del resto d’Europa, nessuno può competete con l’intensità, l’esuberanza, la partecipazione quasi commovente del pubblico in Italia. Anche quando non capiamo tutte le parole delle canzoni le cantiamo tutte, battiamo costantemente le mani, non ci distraiamo neanche per un attimo (i bootleg registrati in Italia sono stati per anni i più inascoltabili!). Per Bruce sarà una rivelazione, una notte che segnerà in qualche modo la sua carriera dal vivo e il rapporto speciale con la ‘sua’ gente italiana. Quando tutto sembra finito, il Boss (perché ogni tanto ci piace ancora chiamarlo così) riemerge dal backstage, e prima attaccare il riff con la sua fender, sempre in italiano promette a quel pubblico che ormai ha conquistato per sempre: “io ritornero ancora”, proprio così senza accento, con quel suo italiano un po’ buffo ma sempre sentito, sincero. Parte Rockin all over the world, omaggio a John Fogerty e ai Creedence, l’America quella bella, quella che ci piace, da cui Bruce Springsteen è arrivato in Italia in quella notte di giugno del 1985 e dalla quale in fondo non è mai andato via.
Articolo del
19/07/2021 -
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