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Un’esibizione senza infamia e senza lode e di cui avremmo potuto tranquillamente fare a meno, quella dei Sisters Of Mercy all’Orion. Senza grandi aspettative siamo andati a vederli in questo locale di Ciampino, vicino Roma, dove arriviamo stanchi e provati dal lungo viaggio nel traffico urbano.
Apre la serata il trio belga Hugs of the Sky, una band che mescola il garage con la psichedelia, il cui cantante, chitarrista e tastierista ricorda vagamente la fisionomia (ma non il look) di Andrew Eldritch da giovane. I Sisters of Mercy iniziano il concerto con una nuova canzone Don’t Drive On Ice, seguita da Ribbons (da VISION THING), poi Marian dal capolavoro che li ha resi celebri FIRST LAST AND ALWAYS, alcune nuove canzoni come There’s A Door, I Will Call You, But Genevieve e When I’m On Fire ed i bellissimi classici di nuovo dal periodo di VISION THING More e I Was Wrong.
Purtroppo del grande carisma di Andrew Eldritch, che ricordiamo come icona di stile goth dal grande magnetismo, resta ben poco. Dal punto di vista estetico lo troviamo col look poco curato che privilegia il confort. Catturano invece l’attenzione sul palco i due chitarristi, il biondo australiano dai capelli lunghi Dylan Smith, nella band dal 2019 (in sostituzione di Chris Catalyst indisponibile per questo tour), dal fisico e dalle movenze metal ed il bruno inglese di Bristol Ben Christo, nei Sisters of Mercy dal 2006. Il terzo che accompagna Eldritch sul palco è Ravey Davey, badante dell’ormai anziana drum machine Doktor Avalanche, oltre che dei due computer dai quali escono suoni preregistrati.
Un colorito siparietto accade con una ragazza del pubblico, che già da un po’ richiamava l’attenzione di Eldritch urlando verso il palco, alla quale il cantante risponde che le sue grida non aiutano affatto lo spettacolo e la invita quindi giustamente a stare zitta. Dopo una breve pausa la band torna sul palco con Eyes Of Caligula, una nuova canzone scritta durante il lockdown ed eseguita per la prima volta in questo tour. Segue Lucretia My Reflection (da FLOODLAND, l’album che vedeva la collaborazione di Patricia Morrison) cantata in coro dal pubblico. In chiusura il singolo del 1983 Temple Of Love, suonato però con l’arrangiamento del 1992, prima di chiudere con l'evergreen This Corrosion. Durante questa canzone alcuni cantano il ritornello a gran voce (ricordando un po’ i cori da stadio di 7 Nation Army dei White Stripes) ma non facendolo però proprio nel momento in cui Andrew Eldritch li invita a cantare dicendo: “Sing!”. Rimane così uno spazio vuoto che non viene riempito dal pubblico che non ha afferrato ma che torna ad urlare subito dopo sopra la voce del cantante che tra l’altro non è certo più quella di una volta.
Per chi ha avuto la fortuna di vedere il gruppo dal vivo negli anni ’80, i Sisters of Mercy di oggi sono un’altra cosa, sia per le sonorità che per l’immagine, ma forse l'importante era esserne comunque testimoni, anche solo per poterlo raccontare ai posteri.
(La foto dei Sisters of Mercy all'Orion è di Daniela Giombini)
Articolo del
29/04/2022 -
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