Il flusso di coscienza torrenziale di Mark Kozelek e della sua creatura Sun Kil Moon va in scena al Monk di Roma come ultima tappa delle date italiane. Non un concerto vero e proprio il suo, ma un lunga conversazione interiore, un vortice inarrestabile di parole adagiate sul palco, tra una chitarra, una luce calda e un leggio.
Quello che il pubblico si troverà ad affrontare sarà infatti una tre ore e mezza di modulazioni da stand up comedy, spoken word e canzoni, alla fine c'erano anche quelle.
Kozelek imbastisce così uno spettacolo personale senza barriere, come le transenne tolte a inizio concerto per ridurre il confine tra lui e i presenti. È un lungo show di racconti, storie e aneddoti, a volte seri, a volte ilari. È una distesa di eloquenza del suo Io, con la voce spesso troncata, con frasi spesso solo percepite, quasi come un prolungamento dei suoi pensieri, e un'attitudine contornata da una sorta di alienazione dilatata che sovrasta la musica stessa. Questo andirivieni di visioni a ruota libera provoca sentimenti contrastanti tra il pubblico e continua incessante, e con indifferenza, anche quando qualcuno tra i presenti si chiede ad alta voce: “Where's the music?”.
Dicevamo in precedenza che ci sono state anche la canzoni, quelle che, un po' come i dialoghi, divengono il prolungamento del suo essere e del suo disagio e che, seppur messe quasi in secondo piano e poggiate su sonorità dolcemente monocordi, restano la parte più forte di tutto lo spettacolo. È proprio attraverso i brani che la pienezza sghemba della voce di Sun Kil Moon e il suono caldo della sua chitarra prendono vita come dipinti d'altri tempi. Si parte con “Christmas in New Orleans” per poi continuare con “Church of the Pines” e “Dogs”. E ancora “Nervous To Fly”, “Young Love”, “Harper Road”, “I Watched the Film the Song Remains the Same” e “Admiral Fell Promises”. Dopo un pezzo di spoken word di circa venti minuti dedicato all'Italia, in cui molti del pubblico hanno abbandonato il campo, tra aneddoti su Senigallia e un ricordo di Mimi Parker dei Low, il live si chiude con “Clarissa” cantata all'unisono con i sopravvissuti.
Una partita di boxe giocata a colpi di parole, impegnativa e non per tutti. Un'esperienza quasi dissociativa per chi era presente e che forse sarebbe stata più facile da vivere comodamente seduti. Uno spettacolo in cui la potenza dell'anarchia della vita, la magia solitaria e ribelle che scava tra gli anfratti più torbidi dell'anima restano comunque appannaggio delle sue canzoni.
Articolo del
21/11/2024 -
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