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Julia Shapiro
Perfect Version
2019
Hardly Art
di
Andrea Salacone
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Debutto solista per Julia Shapiro, musicista già impegnata in progetti quali Chastity Belt, Childbirth e Who Is She?.
Perfect Version nasce come reazione a un periodo di profonda prostrazione psichica; un tentativo di trovare un punto fermo in un momento in cui si è sopraffatti dalla realtà quotidiana e dalle vicende personali.
Lo stato d’animo dell’artista (non c’è bisogno di dirlo) ha influenzato notevolmente i contenuti e le sonorità del disco: un’opera apprezzabile se si amano melodie malinconiche, le canzoni sommesse, i sussurri ora a un passo dalla tristezza, ora quasi sognanti. Si rilevano sbalzi d’umore, e ogni tanto un tessuto ritmico e/o scosse di chitarre elettriche distorte creano la sottile tensione che innerva l’album.
I brani migliori, Parking Lot e Shape, trasmettono efficacemente un’insolita alternanza tra spleen e armonie celestiali, in un intreccio di acustiche ed elettriche riverberate. A livello sonoro, il susseguirsi di oscillazioni tra depressione e momenti di semi-euforia sfiorano le movenze catatoniche dello slo-core senza abbandonarsi all’indolenza (ad esempio, Tired potrebbe provenire da un disco degli Idaho).
Le caratteristiche di Perfect Version ne costituiscono, tuttavia, anche i limiti più evidenti: malgrado l’alternanza di umori, ascoltato dall’inizio alla fine l’album risulta piuttosto monocorde; soprattutto nella seconda metà, i pezzi sembrano girare un po’ a vuoto, tra una cantilena alla J Mascis (“A Couple Highs”) e momenti anonimi quali “Harder To Do e I Lied”.
Tirando le somme, questo pubblicato dalla Shapiro è un disco decoroso, che non si sbrodola in struggimenti fini a se stessi; che la sua mescolanza di suggestioni (Galaxie 500? Mazzy Star? Kurt Vile? Velvet Underground del terzo album?) possa però davvero appassionare, e suscitare il desiderio di sentirlo ripetutamente, è un dubbio che emerge forte e concreto, e difficile da fugare
Articolo del
30/05/2019 -
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