Il cocchiere si muove inquieto, agita le mani, tira indietro i capelli nero corvino. Sguardo impenetrabile e austero, scodinzola le pupille tra microfono e pianoforte, per ripensarci, ancora. La pace verrà / Verrà a suo tempo / Un tempo verrà / Verrà per noi. Benvenuti a bordo. Sarà un viaggio di dolore ed espiazione, la catarsi dello spirito, l’exsultate dell’arte fattasi panacea.
Ghosteen è troncamento di un adolescente divenuto fantasma, ombra eterea che aleggia su questo requiem moderno partorito dalla mente insondabile di Nick Cave (and the Bad Seeds), ultimissima abnorme personalità vagolante tra le pagine della popular music contemporanea.
È il 2015 quando il figlio quindicenne Arthur precipita da una ripida scogliera nei pressi di Brighton, senza fare ritorno. Da allora nulla sarà più lo stesso. Il dolore è gravame insopportabile, macigno assassino. La tua anima è la mia àncora / Che mai vorrei levare / Dormi ora, prendi il tempo che ti serve / Perché io sto aspettando il tuo ritorno. Ne nasce un anelito di apertura, di condivisione col pubblico. Le “Conversations with Nick Cave” e le risposte ai fan sul forum Theredhandfiles.com sono segnaletica luminescente di un nuovo approccio, laddove il confine tra arte e vita privata quasi s’annulla, perché il palco non sia isola inespugnabile ma motivo di conforto ed empatia con gli astanti.
Io sono a fianco a te / Sono con te / Cercami nel sole. Così è nato Ghosteen, album doppio, la cui prima parte simboleggia i genitori e la seconda i figli. Un annuncio, proprio on line, fosfenico ed essenziale: Ghosteen is a migrating spirit. Love, Nick.
Ci vuole introspezione e forza per calarsi tra le tenebre di un capolavoro che scende agli inferi per ricongiungersi alla luce. Nulla è esornativo, abbondante. Non v’è concessione alcuna, non v’è pietà. Tutto è ridotto all’essenziale per farsi etereo, solenne, icastico nel rimandare alla morte che nell’elaborazione del lutto diviene nuova forza e palingenesi interiore. Domina la gravità della voce solista, a tratti falseggiata, finanche recitata, a toccare vette indicibili per bellezza e potenza emotiva.
È un lungo cammino il cercare la pace mentale / Ed io sto aspettando il mio tempo / Sto aspettando che giunga la pace. Le partiture sono un viatico marchiato a fuoco da Warren Ellis: i sintetizzatori plasmano e cullano, impalpabili, una serie di bordoni minimalisti pulsano lenti ed esoterici.
Non può esservi introiezione per l’ascoltatore senza la lettura attenta dei testi, tra elegia e visionarietà, simbolismo e dolcezza impressionistica.
Se potessi eliminare la notte lo farei / E metterei il mondo sottosopra / Non v’è nulla di sbagliato nell’amare qualcosa che non può neppure esistere ammette il bardo australiano nella title track. Ghosteen non è più solo un disco ma una sorta di iniziazione per una nuova umanità, l’allenamento necessario a governare un’intensità tale da spazzare via ogni insipida leggerezza modernistica, al punto da doversi riabituare, a fine ascolto, a soppesare tutto quanto stia intorno. È il tentativo definitivo di trovare un senso alla perdita attraverso la musica, la terapia per il terapeuta. Disarmante. Commovente. A tratti di bellezza insostenibile. Disse: tutti stanno sempre perdendo qualcuno / Poi si diresse alla foresta e seppellì il suo bambino. Non può esservi ritorno dopo un lavoro del genere, ma solo un nuovo inizio. Nick Cave lo sa bene, e noi con lui. Che ci rimarrà mai tra le mani, in questi tempi di mediocrazia, espletata tanta bellezza?
Articolo del
23/11/2019 -
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