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Una settimana fa, due notti con gli U2 e uno dei dischi più importanti della nostra vita…
Il rischio di sentirsi irrimediabilmente invecchiati era alto, altissimo, e per certi versi inevitabile, visto che trent’anni sono davvero passati per tutti, non solo per The Joshua Tree. Oltre centomila persone in due sere all’Olimpico, a provare a riannodare i fili della storia di questa band che conquistava il mondo alla fine degli anni ’80, e anche i fili della nostra storia che da ragazzi che eravamo, alcuni appena adolescenti, ci ha portato ad oggi, con la speranza e la paura di sentirci un po’ come ci sentivamo allora.
La paura, si, perché The Joshua Tree non può essere il disco di trent’anni fa, e sicuramente non lo siamo noi. Ma in tutti questi anni quel disco l’avremmo risentito centinaia di volte, e alla fine lo sappiamo benissimo che non è tutto come allora. Volevamo rivivere il rito e la sferzata vitale, di trovarci lì in mezzo, per due notti, insieme a chi come noi ha superato i quaranta, ma anche a tanti ragazzi di venti/venticinque anni che sono letteralmente nati con Beautiful Day, Elevation, e Vertigo, ma che alle prime note di Where the streets have no nome, sono schizzati in aria, impazziti come noi, perché volevamo gridare al mondo che quella roba lì ci aveva cambiato la vita.
A risentirlo tutto d’un fiato nei due concerti romani, possiamo dirlo con tranquillità: The Joshua Tree è invecchiato, ma è invecchiato bene! E’ un album, un vinile del 1987, non racconta l’America di oggi, ne’ tantomeno il mondo di oggi, e forse non voleva essere un disco che a distanza di tanto tempo suonasse sempre attuale. Era lo sguardo curioso (e furioso), poetico, anche ingenuo per certi versi, di quattro ragazzi, su quella terra di “speranza e sogni”, i suoi spazi immensi, le sue strade infinite, la sua politica pericolosamente intrecciata agli interessi del mondo.
Era quello che vedevano gli occhi, e quello che sentiva l’animo di quattro irlandesi che stavano diventando cittadini del mondo e scrivendo una pagina di storia del rock. E’ invecchiato, insomma ma mette ancora i brividi, da quanto è bello. Ci aspettavamo il solito palco monstre, le immagini le avrete viste tutti, e se non lo avete fatto, fatelo, perché sono spettacolari, dei due palchi, e soprattutto del gigantesco schermo ad altissima risoluzione. Ma abbiamo visto e sentito soprattutto quattro musicisti che si dannano l’anima per quelle due ore, suonano, cantano, si cercano musicalmente e fisicamente.
Sono solo loro quattro, se uno di loro si fermasse l’incantesimo si romperebbe. Ma nessuno si ferma, nessuno molla la presa. Sulle ultime note di Mothers of the disappeared si chiude il sipario su The Joshua Tree, e per certi aspetti finisce il concerto, mettendoci di fronte a quello che siamo e quello che eravamo trent’anni fa. Nella seconda parte, da Miss Sarajevo a Elevation veniamo bruscamente catapultati dentro quello che la musica degli U2 è diventata negli ultimi anni, ma va bene lo stesso.
E’ il gusto dolceamaro dell’essere arrivati fin qui, trent’anni dopo, senza troppa nostalgia (vabbè, giusto un filo…) e senza la retorica dei “bei vecchi tempi andati”. Gli U2 hanno riconquistato il mondo, anche questa volta, quindi. Noi ci avviamo verso casa pronti a rimettere sul piatto quel vecchio vinile ormai consumato, ma dall’Olimpico a casa la strada è più lunga del previsto. Si è fatto tardi, sarà la prima cosa che faremo domani
Articolo del
23/07/2017 -
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